La notte dello scorso 3 novembre un commando di militari tigrini ha attaccato una base dell’esercito etiope portando ai massimi livelli il conflitto tra il governo centrale e l’amministrazione del Tplf (Tigray People’s Liberation Front) del Tigray.

La reazione è stata, in un primo momento, definita «operazione di polizia per il ripristino della legalità», ma i bombardamenti aerei e i carri armati hanno chiarito fin dalle prime ore che si trattava di guerra. In poche settimane l’esercito etiope con il sostegno di militari eritrei ha cacciato il Tplf dalla capitale Makallé e poi dalle principali città.

COSÌ DA ADDIS ABEBA hanno sancito che la guerra era finita e la legalità ripristinata: il governo centrale ha iniziato a sostituire i vari responsabili delle amministrazioni locali con altri provenienti soprattutto dalla vicina regione Amhara.

Il movimento di liberazione del Tigray ha riconfigurato le sue azioni di guerriglia e nonostante le sconfitte ha raccolto nuove reclute e consenso territoriale. Alcune zone sono rimaste sotto il controllo del Tplf.

Finché, lunedì sera, dopo otto mesi i combattenti del Tigray sono entrati nuovamente nella capitale regionale assumendo il controllo dell’aeroporto e della rete di telecomunicazioni dopo che l’esercito etiope aveva deciso in modo unilaterale di ritirarsi dalla città: i media etiopi hanno annunciato il cessate il fuoco immediato fino al termine della stagione della semina (settembre).

Nonostante le difficoltà di comunicazione, nelle ultime settimane da più parti veniva segnalata un’escalation di violenze e movimenti militari che evidenziavano che i ribelli del Tigray erano al contrattacco e costringevano i militari etiopi ad abbandonare diverse basi strategiche intorno ad Adigrat e Abiy Adiy.

La situazione è tutt’altro che in via di soluzione: resta la presenza dei militari eritrei che, nonostante ne sia stata annunciata più volte la ritirata, hanno continuato a restare sia lungo i territori di confine del Tigray che nelle zone più centrali.

I tigrini temono un colpo di coda degli eritrei che non possono permettersi il fallimento di questa «campagna» e chiedono alla comunità internazionale una sorta di no fly zone nella regione per prevenire possibili attacchi aerei.

IL GOVERNO ETIOPE ha motivato la scelta del ritiro dal Tigray non per ragioni militari, ma perché gli agricoltori possano coltivare in pace, per favorire la distribuzione degli aiuti umanitari (sono a rischio carestia centinaia di migliaia di persone) e per trovare la via del dialogo con il Tplf (o almeno con una parte di esso).

Al momento il ritiro appare una scelta tattica che ripropone il premier etiope Abiy Ahmed come uomo di pace a livello internazionale, alleggerisce il bilancio statale da un costo importante e dovrebbe sbloccare gli aiuti dell’Unione europea e degli Stati uniti. Per contro potrebbe esserci un effetto domino che rafforza le altre spinte secessioniste in atto nel paese.

Resta, poi, necessaria un’azione diplomatica perché il cessate il fuoco unilaterale diventi permanente: «è essenziale, ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres, che i civili siano protetti, che gli aiuti umanitari raggiungano le persone bisognose e che si trovi una soluzione politica».

INTANTO A MAKALLÈ la gente è scesa in strada per festeggiare, con migliaia di bandiere sventolate e fuochi d’artificio. Ma la pace appare ancora lontana. Lo scontro militare ha già provocato migliaia di morti, affamato 350mila persone e sfollato oltre due milioni di residenti, con le organizzazioni internazionali che accusano tutte le parti in conflitto di gravi violazioni dei diritti umani.