“Ho deciso, dopo averne discusso con i presidenti dell’Assemblea e del Senato, di chiudere il dibattito costituzionale”. Con una dichiarazione solenne di meno di 6 minuiti, dopo il consiglio dei ministri, François Hollande ieri a fine mattinata ha ammesso l’evidenza: non ci sarà nessuna revisione della Costituzione.

“Assemblea e Senato non sono riusciti a mettersi d’accordo su uno stesso testo e anche un compromesso sembra fuori portata”, è stato costretto a constatare il presidente.

Dopo 4 mesi di forti polemiche, che hanno diviso il paese, spaccato la sinistra e portato alle dimissioni della ministra della Giustizia, Christiane Taubira, presidente e governo sono obbligati a fare marcia indietro. Non verrà convocato il Congresso a Versailles e non verrà messo al voto neppure il primo articolo della riforma, quella sulla costituzionalizzazione dello stato d’emergenza, che aveva i numeri per passare e che è stato approvato negli stessi termini da Assemblea e Senato.

Il secondo articolo – la privazione di nazionalità per i terroristi condannati – non è stato votato negli stessi termini dalle due camere. L’Assemblea ha approvato il 10 febbraio un testo rimaneggiato rispetto alla stesura iniziale, che prevedeva la privazione di nazionalità per tutti, bi-nazionali e franco-francesi, per evitare di istituire una differenza tra cittadini di serie A e B, ed estendeva la pena anche a reati minori. Il Senato ha invece votato il 22 marzo la prima stesura della riforma, con la privazione limitata ai bi-nazionali, per evitare di creare degli apolidi (misura che va contro le convenzioni internazionali). Dopo la standing ovation del 16 novembre scorso, quando Hollande aveva proposto la riforma costituzionale di fronte al Congresso, nell’emozione dei 130 morti degli attentati del 13 novembre, la svolta securitaria e marziale del governo socialista affonda nelle proprie contraddizioni. La Francia resta in stato d’emergenza, proclamato per il momento fino a fine maggio. In questi giorni di nuova inquietudine sollevata dagli attentati di Bruxelles, malgrado le critiche sotto le quali è sommerso il governo belga, contrasta la reazione diversa tra i due paesi colpiti: il Belgio non ha fatto ricorso a leggi d’eccezione, a differenza della Francia governata dai socialisti, che ha immediatamente scelto la via marziale.

Subito è cominciata la corsa al rimpallo delle responsabilità, acuita dall’appuntamento delle presidenziali, tra poco più di un anno. Hollande e Manuel Valls accusano la destra di aver affossato la riforma. “Ho constatato che parte dell’opposizione è ostile a qualsiasi revisione costituzionale”, ha detto Hollande, “deploro profondamente questo atteggiamento”.

Valls ha espresso “immenso rimpianto” per l’abbandono e ha aggiunto altre accuse: la destra al Senato ha rifiutato “la mano tesa” del governo, che aveva proposto “una misura voluta dall’opposizione, oltrepassando le divisioni partigiane”. In effetti, la privazione della nazionalità per crimini di terrorismo è una vecchia domanda della destra e dell’estrema destra, che Hollande e Valls avevano abbracciato con estrema imprudenza. Nel Ps, il capogruppo all’Assemblea Bruno Le Roux era ben solo ieri a insistere che “si’, abbiamo bisogno di questa revisione”. Il segretario socialista, Jean-Christophe Cambadelis, ha chiesto “scusa” ai francesi, “che non possono che essere costernati da questo triste spettacolo”. La destra è partita all’attacco contro Hollande. Per l’ex primo ministro Jean-Pierre Raffarin, il presidente ha subito “un affronto”. Per Nicolas Sarkozy, che a destra era il più deciso a favore della privazione della nazionalità (che aveva proposto nel 2010), “Hollande ha creato le condizioni del fallimento”. Marine Le Pen parla di “fallimento storico” e considera Hollande “il solo responsabile”.

Di fronte a questo assurdo disastro politico, da cui la sinistra esce a pezzi e sempre più debole dopo aver corso dietro alle idee dell’estrema destra, Hollande difende la proclamazione dello stato d’emergenza e l’aumento del numero di poliziotti e militari. Nessuna autocritica da parte del presidente. Che oggi dovrà far fronte a una nuova giornata di protesta nazionale contro l’altra legge controversa di questo fine regno a destra tutta: la riforma del lavoro, la legge El Khomri, accusata di istituzionalizzare il precariato, rendendo più facili i licenziamenti.

I sindacati arrivano divisi a questa nuova giornata di scioperi e manifestazioni. La Cfdt non partecipa, perché il governo ha modificato la prima stesura del testo di legge, accettando i suggerimenti del sindacato riformista. Per timore di nuovi scontri, molti licei saranno chiusi d’ufficio (la scorsa settimana, un ragazzino era stato picchiato da un poliziotto e il governo teme cortei agitati per la forte presenza di giovani, che si sentono i grandi perdenti della riforma del lavoro). L’indignazione cresce, di fronte a due pesi due misure: sempre più flessibilità per i salariati, mentre per il presidente del Medef (la Confindustria francese), il più che raddoppio dello stipendio de Carlos Tavares, ad di Peugeot, a 5,2 milioni di euro l’anno è semplicemente “la remunerazione del merito”.