Di Amenábar piace la voglia e la capacità di mettersi sempre in gioco. Anche quando non convince. E non è un caso che i suoi film più genuinamente divertenti siano proprio quelli in cui le ambizioni, talvolta smisurate, come nel caso di Agora, riescono a dialogare agilmente con il genere. Amenábar, per certi versi, ricorda il miglior Wolfgang Petersen, colto autore popolare prestato a Hollywood per produzioni più o meno di alto profilo, sempre corteggiando schietta spettacolarità e generi capaci di ibridarsi con altri linguaggi. Non meraviglia dunque che, come per i suoi precedenti film, si sia addensata molta curiosità intorno a Regression. Fedele al suo metodo di lavoro, Amenábar sceglie un microcosmo nel quale calare il suo sguardo; in questo caso la provincia statunitense, terreno di coltura di fondamentalismi domestici, dove il culto per le armi da fuoco s’intreccia senza soluzioni di continuità con il radicalismo cristiano.

Carol Spier, scenografa cronenberghiana, riesce con grande precisione a tracciare il segno di una depressione politica ed economica autentica, nella quale Amenábar ambienta la sua vicenda di abusi sessuali incestuosi, ipnosi regressiva e culti satanici. Scegliendo di ambientare il film negli anni Novanta, il decennio in cui il black metal norvegese ha conquistato le anime degli adolescenti in cerca di autenticità nella musica (il metal satanista è la vera seconda esplosione punk che piaccia o meno), Amenábar compie un’operazione sociologicamente corretta ma manca di svilupparla sino in fondo.

L’elemento dell’ipnosi regressiva, stratagemma narrativo utilizzato per comprendere se il padre (Daniel Dencik) abbia realmente abusato di sua figlia Angela (Emma Watson), è in realtà sfruttato poco e non troppo abilmente, frenando, paradossalmente, l’accumularsi della tensione. Ethan Hawke, che con grande acume si sta ritagliando una carriera parallela nel cinema di genere a costo contenuto (Predestination, Daybreakers, La notte del giudizio…), detective contemplativo insofferente dell’ignavia dei colleghi e tormentato dai suoi demoni, finisce prevedibilmente intrappolato in una dimensione nella quale fatica a districarsi fra realtà e allucinazioni.

Ogni tanto, in qualche scorcio cittadino colto dal suo sguardo febbrile e inquieto, è possibile scorgere qualche barlume di quel malessere all american che, per esempio, Gary Sherman in Morti e sepolti ha saputo elaborare in maniera addirittura magistrale. Purtroppo Amenábar, vittima di uno script non brillante e meccanico, non permette alla follia e all’indeterminazione del principio di realtà di liberarsi dalle pastoie della parola scritta, privando il film di quella tensione che invece funzionava benissimo in In corsa con il diavolo di Jack Starrett. In questo modo anche gli affascinanti scorci propriamente satanici funzionano poco e male. Regression, dunque, fra i film di Amenábar, sino a oggi, è quello che vanta il minor coefficiente di piacere e seduzione. Peccato, perché le premesse per un thriller efficace c’erano (quasi) tutte.