Fa un certo effetto vedere il Festival che si definisce il «cuore del cinema nel mondo» inaugurare la sua nuova edizione con uno spettacolo che sembra invece celebrare la cerimonia funebre di sé stesso e del cinema. Invocando la sala e la sua importanza come in un mantra – con espliciti attacchi ai colossi dello streaming, Netflix in testa – è come se ne avesse sottolineato la debolezza, la crisi che c’è ovunque, e che certo non si risolve distogliendo con testardaggine gli occhi e arroccandosi in un castello di tappeti rossi, champagne (forse), privilegi vari. Anche il festival appare debole, disorientato rispetto alla realtà del mercato, dei media, di quanto ci circonda; ha perso la sua forza, essere sulla Croisette o meno per i film a alto budget, specie americani, non serve a molto, il mercato procede per suo conto, e nonostante le rivendicazioni autoriali/eurocentriche il vessillo issato ovunque è quello di Tarantino a cui ci si aggrappa come i naufraghi del Titanic – di cui c’è tutto, classi comprese.

IN CONCORSO è arrivato il primo film francese, e anche il primo tra quei nomi nuovi del programma; Les miserables, è firmato da Ladj Ly, quarantenne, parigino, autore anche della sceneggiatura – insieme a Alexis Manenti e Giordano Gederlin – che vi dissemina molto del suo vissuto e delle sue esperienze personali nella banlieau della capitale francese, i conflitti della cité come l’arresto di una ragazzino a Bosquet nel 2008, di cui lui stesso è stato testimone, e che ha ispirato questo film, coi poliziotti che picchiavano selvaggiamente un giovane nero ammanettato. E prima ancora, nel 2005, quando faceva murales insieme a JR, laddove è esplosa la rabbia, dopo l’assassinio di Zyed Benna e Bouna Traorè a Clichy – sous – Bois. Eppure qualsiasi abuso, qualsiasi forma di prevaricazione venivano sempre giustificati dalla polizia come conformi al regolamento; gli altri sono i ragazzi delle periferie, spacciatori, ladri, terroristi potenziali o già in atto. Ladj Ly ci è cresciuto lì e ci vive ancora in quelle periferie, vicino a Parigi ha fondato una scuola di cinema gratuita, la sua produzione e dove ha girato il film è a Clichy Montfermeil, la cité di Bosquet. Autodidatta, ha iniziato a filmare proprio durante le rivolte del 2005 per documentare, un po’ come il ragazzino del suo film, che filma il quartiere dall’alto del suo piccolo drone, quanto stava accadendo.
I «Miserabili» di Hugo nel nostro millennio sono dunque questi ragazzini, adolescenti e pure più piccoli, che provano a sopravvivere alla violenza quotidiana della polizia, arrogante e corrotta, ai tentativi di indottrinamento dei fratelli musulmani, agli affari loschi del rais del quartiere, lo chiamano il sindaco, i poliziotti di zona ogni tanto gli coprono i traffici in cambio della promessa di tenere il territorio sotto controllo.

CI SONO TRE agenti, Chris (Alexis Manenti) che pensa di avere il diritto di esercitare qualsiasi minaccia, Gwuada (Djebril Zonga) e uno appena arrivato, Stephane (Damien Bonnard), il capo ha il sorriso e la voce roca di Jeanne Balibar. È il loro primo giorno insieme in pattuglia, sarà come dice Stephane il peggiore della sua vita. C’è un ragazzino, Issa che ruba animali, stavolta ha rubato il leone dei gitani del circo, sono pronti a uccidere per riaverlo. C’è anche il Sindaco che litiga con un pakistano, e ci sono gli spacciatori amici del poliziotto….E c’è Salah, guida spirituale nel suo piccolo ristoro di kebab, islamici radicali, dicono che è stato in Siria, e come altri è sotto controllo.

È ESTATE, i ragazzini giocano nel campetto di calcio, i poliziotti cercano Issa, lui scappa, i ragazzini lo aiutano: poi succede qualcosa che è forse inevitabile, qualcuno vede, qualcuno filma, le immagini sono pericolose, diventano un ricatto. Il paesaggio del film è molto chiaro, il regista traccia delle linee nette che si rispecchiano nei personaggi: la polizia, le diverse «anime» del quartiere e in mezzo loro, quei giovanissimi costretti a una lotta continua, che può solo esplodere senza trovare un finale. Tanto tempo fa c’era stato L’odio il film di Kassovitz (insopportabile) concentrava stereotipi sul tema in un maldestro approccio di «genere».

QUI LA DISTANZA ravvicinata media – certo c’è il poliziotto semi-buono e il poliziotto cattivo entrambi poveracci anche loro, ovviamente – e l’urgenza del regista nel modo in cui lascia crescere la tensione nel film sembra andare all’opposto: una volta messi in chiaro i soggetti coinvolti sposta l’obiettivo su quelli che sono i suoi veri protagonisti: i giovanissimi, esposti a ogni sorta di ricatto, sui quali tutti pensano di poter esercitare un qualche potere di famiglia, di autorità, di legge, «erbe coltivate male» – come si legge nella citazione di Hugo, o forse lasciate andare. Ly – che guarda a Spike Lee – si muove tra i palazzoni tutti uguali, sa cogliere le sfumature di riti di sopravvivenza e di fughe, filma fluidamente i suoi giovanissimi protagonisti contrapposti a quel tono letterario degli altri, a cominciare dai poliziotti.
Eppure qualcosa manca, una relazione, che ci riveli quell’universo, senza didascalie o spiegazioni, ma in un’empatia capace di superare la cronaca. Invece quei ragazzi rimangono vittime o giustamente incazzati, lo sappiamo già. Del loro mondo continuiamo a sapere poco.