Si fa fatica immaginare in ’dorata’ pensione i miti adolescenziali. Figurarsi se il personaggio è Rita Pavone, classe 1945, nei primi anni sessanta un vero terremoto musicale e televisivo che ha attraversato l’Italia ’povera ma bella’ del dopo guerra e l’ha in qualche modo accompagnata nel boom economico. Mina, Celentano, certo, ma l’arrivo di questo peperino torinese «piccola di statura non bellissima» come si definisce lei stessa nell’autobiografia Nel mio piccolo (1997), suppliva alla cosiddetta mancanza di physique du rol con una grinta e una voce che non poteva lasciare indifferenti. La si amava o la si detestava. Nel giro di otto anni ha venduto decine di milioni di dischi, girato il mondo compresa una fortunata parentesi al di là dell’oceano, recitato in numerosi musicarelli, frequentato assiduamente il piccolo schermo in trasmissioni come Studio Uno (1962, l’edizione in cui sostituì Mina scomunicata dalla Rai per via della gravidanza fuori dal matrimonio…), Alta Pressione (1962), Stasera, Rita (1965), Partitissima (1967), Canzonissima (1969). Lasciando almeno una traccia indelebile nell’immaginario collettivo grazie allo sceneggiato televisivo Il giornalino di Gian Burrasca (1964), dove diretta da Lina Wertmuller ha prestato la sua grinta da maschietto alla maschera inventata da Giannino Stoppani.

Il problema semmai è stato crescere. Sposarsi – con Teddy Reno, venti anni più di lei, scandalo nell’Italia bacchettona, avere due figli e restare sempre (e per sempre) la ragazza del Ballo del mattone, costretta a un repertorio che nonostante le indubbie capacità di interprete, nella maturità non è mai stato all’altezza della sua voce. Otto anni fa all’alba dei 60 ha deciso di fermarsi, un «buen ritiro» a Maiorca per riprendersi – dice lei – «la vita, le cose che non avevo mai fatto. Se mi andava facevo la valigia e partivo a Broadway a vedermi un musical». Ma aveva un sogno nel cassetto, un disco composto da pezzi che l’avevano fatta innamorare giovanissima della musica, ma che non era mai riuscita a realizzare. Se l’è prodotto da sola – «tanto i discografici non me l’avrebbero fatto fare», ha chiamato ad arrangiarlo il talentuoso Enrico Cremonesi e l’ha intitolato Masters, incidendolo praticamente dal vivo.

Ascoltando Masters, viene quasi il rimpianto di non aver ascoltato prima Rita interprete e non legata solo al passato della ragazza tutta fremiti di Cuore…. Errori dei discografici, imposizioni, scelte strategiche sbagliate?

Per anni sono stata legata a contratti discografici e a imposizioni sul repertorio da scegliere, quindi dovevo fare anche cose che non volevo fare. Io per esempio quando vedevo Dalla cantare Caruso interpretandolo in maniera sempre diversa, non la vedevo come una questione di snobismo da parte sua. Era che a distanza di tempo un artista sente i suoi pezzi in maniera diversa. E accade perché si cresce, ma i discografici non ti permettono di cambiare, e per una femmina è ancora peggio. Se hai avuto successo da ragazzina è difficile che ti lascino maturare. Un cantante è come un attore, non può recitare lo stesso ruolo per sempre. Prendo ad esempio Jim Carrey; lo conoscevo per le commedie poi l’ho visto in Se mi lasci ti cancello, dove sosteneva un ruolo drammatico. Bisogna permettere alle persone di saper fare altro anche perché – se si ragiona in termini ’commerciali’ – le generazioni cambiano e non è detto che le cose fatte in passato possano ancora interessare. Quando andavo a vedere Sinatra mi aspettavo che cantasse I’ve got you under my skin, My way, ma volevo anche ascoltare cose nuove…

La scelta dei pezzi è molto eclettica, da Bobby Darin con «Rainin’» a Bacharach «If I never get to love you». Enrico Cremonesi è stato bravo ad adattarsi ad atmosfere molto varie e a trovare una chiave di arrangiamento decisamente originale…

Ho faticato moltissimo a trovare l’arrangiatore giusto, perché sono stata viziata… in passato. Nel senso che ho lavorato con gente del calibro di Ennio Morricone, Luis Bacalov e in America con Chet Atkins, Floyd Kramer, Al Hirt e il coro di Anita Ker. Artisti per i quali la musica era parte integrante della loro vita; gli facevi ascoltare le canzoni e loro aggiungevano armonie vocali che ti lasciavano senza parole. Ora il computer – che pure ci ha fatto conoscere mondi diversi – ha tolto il gusto e appiattito i suoni. Gli arrangiatori non scrivono più le partiture. Non era semplice trovare l’uomo giusto, perché vvolevo affrontare generi diversi, il pop, il jazz, il rock e lo swing. Stavo per andare in Inghilterra per contattare altri produttori, quando la mia segreteria mi ha parlato di Cremonesi, che io avevo scartato a priori perché convinta avesse una sorta di ’esclusiva’ con Fiorello. E invece non era così, l’ho chiamato e si è dimostrato subito disponibile Abbiamo fatto tre quarti di disco live, registrato in diretta molte parti ed era divertente in sala vedere i musicisti che si appassionavano al progetto e proponevano variazioni. Un’atmosfera molto stimolante.

Nella sua autobiografia racconta di un’infanzia e adolescenza difficile ma con tanta voglia di emergere. In un passo parla del periodo in cui lavorava come camiciaia e muoveva i primi passi da cantante. La sveglia alle cinque, il tram e la corsa da un capolinea all’altro. Sembra un’altra Italia se comparata alla crisi furiosa di questi anni. Lei poi vive in Spagna dove la recessione è stata – ed è – ancor più feroce…

Sì, la Spagna del dopo Franco è cambiata radicalmente. Ora stanno combattendo contro una crisi pesante, che forse tocca più loro che noi. Noi abbiamo una capacità di rialzarci quando tocchiamo il fondo, almeno mi auguro perché c’è bisogno di un colpo di coda. È difficile fare un paragone con i sessanta; io vivevo in un appartamento di due stanze, eravamo in sei e mio papà era l’unico che portava a casa 120 mila lire che finivano subito, perché con questi soldi mia madre doveva affrontare tutte le spese. Mangiavamo carne solo la domenica, negli altri giorni ci si arrangiava con polenta, riso e latte. Ma c’era la volontà di farcela. Io sono nata artisticamente nell’Italia del boom, dove le cose sono cambiate improvvisamente. Mio padre aveva ottenuto la casa della Fiat, e allora andavo in colonia: partivo con gli altri bambini alla stazione di Porta Nuova che ci portava a Marina di Massa. Eravamo 120, tutti vestiti uguali, ma mi trovavo bene: mangiavo pasti abbondanti tutti i giorni compresa la cioccolata che a casa non vedevo mai. Ho un ricordo della mia infanzia che potrei riassumere così: vivevamo tristemente bene. Oggi sembra non esserci più il senso della comunità, si respira intorno a noi una profonda solitudine…

Torniamo al disco, il secondo cd ripropone gli stessi pezzi, ma cantati – con molte variazioni interpretative, in italiano. Testi che portano la firma di vecchie conoscenze come Migliacci o Lina Wertmuller, l’amico Dario Gay. E ben cinque quella di Enrico Ruggeri…

Era un sogno avere Enrico nel disco, pensavo non avrebbe accettato di lavorare con me per via dei soliti pregiudizi. Se ci sarà un disco di inediti, mi piacerebbe lavorare ancora con lui. È veloce, ha un’idea e immediatamente compone. Le versioni in italiano mi hanno permesso di incidere e interpretare in maniera differente rispetto al primo cd, perché così costringi chi ti ascolta a non annoiarsi mai. Mi ha divertito un ascoltatore che durante un passaggio in radio mi ha detto che I want you sembra l’incontro fra i Muse e Johnny Cash…

Nei 60 ha fatto molta televisione: essere al fianco di mostri sacri di quel calibro non le ha mai creato una sorta di sudditanza psicologica?

No, e non è presunzione. E che era talmente tanta la gioia di fare questo mestiere e incontrare personaggi che avevo solo visto al cinema o ascoltato nei dischi. Ero come le bambine che vanno al luna park, o meglio mi sentivo come Alice nel paese delle meraviglie. Piuttosto facevo attenzione a studiare questi talenti immensi. Ricordo una serata – ne ho fatte cinque – all’Ed Sullivan Show – negli studi dove oggi fanno il David Letterman Show. Era il 7 marzo del 1965, io ero il terzo nome: c’era Duke Ellington, poi Ella Fitzgerald ed io. Ero in sala ad assistere alle prove della Fitzgerald, che alle 9 del mattino provava con un fazzoletto in mano: tirava fuori acuti e giocava con lo scat in una maniera incredibile. Mi dicevo: ma io che ci faccio qui? E invece poi raccoglievo da parte dei giovani molti consensi. Io li studiavo ed ero come una carta assorbente: tutto quello che potevo prendere lo facevo mio. E mi è servito. Incontravo gente come Barbra Streisand, ma non ho mai perso il senso delle proporzioni. Stavo vivendo un sogno, ma ne ero consapevole. Vedo oggi artiste con una bella vocalità e un buon repertorio ma che puntano troppo sul lato estetico. E alla fine non duri. Per me Masters (ora disponibile in una versione deluxe, ndr) è come una rinascita, voglio fare concerti nelle principali città italiane nel 2014, sempre con Cremonesi. Voglio divertirmi e fare divertire.

Oltre a molti musicarelli cinematografici, nel suo curriculum anche il teatro. Nel 1996 Franco Branciaroli le ha affidato la parte della strega Maria nella «Dodicesima notte» di Shakespeare. Un ruolo che le ha regalato lusinghiere critiche…

Quando Branciaroli mi propose la parte, io gli dissi che aveva sbagliato persona. La cosa che mi ha aiutato nella vita è aver trovato persone che credevano ciecamente in me. La stessa cosa è successa con Lina Wertmuller per Gianburrasca; io per non deluderli ci ho messo l’anima. Mi piacerebbe tornare a fare la prosa, però vorrei recitare in ruoli che mi facciano soffrire perché devo scoprire un’altra parte di me, non fare cose che ho già fatto. Mi piace sempre rimettermi in gioco.