Nel 2011, a soli 34 anni, Rita Indiana viene nominata dal quotidiano El País tra le 100 personalità latine più influenti. Travolgente come un uragano, così l’aveva definita allora Diego A. Manrique, che sfrutta il linguaggio popolare e il suo traboccamento di immagini, segni e appassionate coincidenze. Blogger, compositrice, solista della band di merengue alternativo Los Misterios, oggi Rita Indiana rappresenta una delle voci più interessanti della letteratura caraibica contemporanea.

Nata a Santo Domingo, della Repubblica Dominicana ha sempre segnalato luci e ombre. Non solo in relazione al suo attivismo nel movimento lgbqt ma soprattutto nella denuncia di quello che lei stessa ha definito «razzismo spietato» nei confronti dei dominicani figli di haitiani. Questo tema, che le è molto caro, è una parte delle intersezioni di cui si occupa la sua scrittura e che, insieme alla sessualità, alla differenza di classe, disegnano una esatta percezione del mondo. A ciò, Indiana si riferisce tenendo sempre presente il linguaggio popolare, la cultura orale in cui è stata immersa e il lavoro di sottrazione previsto dalla letteratura.

Cosa pensa della relazione tra oralità e scrittura?
Mia nonna era una levatrice e una grande narratrice, tutti – dalla parte di mio padre – hanno capacità affabulatoria e narrativa. Provengono dalle campagne e sono pieni di stupefacenti superstizioni che hanno reso la mia infanzia generosa di storie. Inoltre, ho iniziato ad apprezzare in tenera età i diversi accenti, inflessioni e slangs utilizzati per comunicare, come sia ricco il mondo con le sue tonalità. Nella mia scrittura mi interessa la psicologia sottesa dietro questo modo di parlare, la storia dietro la musica che le persone fanno quando parlano.

Nel suo romanzo «Nombres y animales» (Periférica 2013) appena tradotto in Italia da Vittoria Martinetto con la casa editrice NN (pp. 170, euro 16) con il titolo «I gatti non hanno nome», possiede un io narrante – senza nome proprio – che racconta se stessa. La quattordicenne al centro della vicenda compie un cammino di liberazione di sé che appartiene a una precisa fase di autocoscienza?
Come ogni romanzo di formazione, si scatenano su questa giovane anima esperienze difficili, critiche, che introdurranno il personaggio femminile nella crudezza dell’età adulta. Anche in giovane età, certe esperienze modellano la futura visione del mondo, sembrano dilatate perché sono nuove e non hanno riferimenti a ciò che è accaduto prima.

La clinica veterinaria dove lavora la giovane protagonista del romanzo sembra essere la rappresentazione di un luogo di frontiera in cui si incontrano diversi sopravvissuti, come gli animali che arrivano lì perché hanno bisogno di cure. C’è una comune fragilità nella loro sorte?
L’ho realizzato quando stavo finendo di scrivere, sì, questa clinica disfunzionale è un non-luogo: una metafora per indicare ferite che non guariscono mai, ferite emotive, ferite collettive, ferite storiche, come per esempio la schiavitù.

La ragazzina si diverte a elencare numerosi nomi da dare a un gatto, riflette sull’eventualità di assegnarli ma poi non lo fa. Ogni nome appartiene a una storia possibile?
Credo nel potere della parola, in un senso biblico, come ai nomi che hanno una capacità creativa e hanno una particolare energia, i nomi definiscono il modo in cui percepiamo le cose. Quindi, per ogni nome di gatto che il personaggio femminile non usa, ci sono altrettanti e differenti gatti così come differenti e possibili romanzi.

«Realismo magico» e «meraviglioso caraibico», disseminati in questo e anche nei suoi romanzi precedenti. Tuttavia entrambi risultano sorvegliati e in preda a una singolare torsione, a tratti svuotati e riconducibili poi a metafore straordinarie, di quelle potenti del fantastico infantile. Quali sono i suoi autori di riferimento?
In questo libro mi sono allontanata dal realismo magico e i suoi riferimenti latinoamericani, per rivolgermi ai romanzi di formazione di scrittori staunitensi come Carson McCullers, Invito di nozze (Longanesi), Richard Wright, Ragazzo negro (Einaudi) o Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn (Giunti). Questi libri hanno significato per me una scossa, come un campanello, quando avevo l’età della ragazzina di cui scrivo. Spiegavano infatti molto intorno alle dinamiche della razza, del genere e della classe che ho poi inserito e che mi hanno resa sensibile e mai più disattenta alle questioni.

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[questa sera Rita Indiana sarà ospite al Marina Cafè Noir di Cagliari]