La forza dell’Italia? Nel rapporto con l’estero e nel risparmio privato. Dopo Bankitalia, è Paolo Savona, presidente della Consob, a sottolineare la specificità italiana, nel suo discorso all’incontro annuale con il mercato finanziario. Partiamo dai conti con l’estero. Nei dodici mesi terminanti a marzo 2020, il surplus del nostro conto corrente è stato di 57,7 miliardi di euro (il 3,2% del Pil), da 43,4 miliardi nel corrispondente periodo del 2019.

Un altro record dovuto alla notevole dimensione del nostro avanzo mercantile (62,3 miliardi, da 46,0), che ci mantiene nel gruppo di testa dei Paesi esportatori a livello europeo, con una «posizione netta sull’estero» – debiti e crediti col resto del mondo – in sostanziale equilibrio (tra il 2013 e il 2014 le passività erano pari al 25% del Pil).

Il secondo punto di forza del nostro Paese è il risparmio delle famiglie e il basso livello di indebitamento del settore privato. Per rendere l’idea confrontiamo la nostra situazione con quella dell’Olanda.

Il debito pubblico olandese è intorno al 50% del Pil, mentre quello italiano al 130%. Se guardiamo invece ai debiti di famiglie e imprese il capovolgimento della situazione è impressionante: intorno al 100% del Pil in Italia, oltre il 250% in Olanda. «Frugali»? Non si direbbe proprio.

Ha ragione Paolo Savona, perciò, quando dice che «scarseggia una giusta considerazione» di questa straordinaria risorsa (4.445 miliardi a fine 2019), che potrebbe essere messa al servizio dell’economia e della società, evitando, in questo modo, che le «formiche» italiane «lavorino per sostenere molte cicale estere», ovvero cadano prede di forze speculative, in un contesto, quello del mercato finanziario globale, sempre più «alterato» e sfuggente ai controlli delle autorità pubbliche e di vigilanza.

Le banche «universali» raccolgono il risparmio privato, ma sono anche il cuore della nuova «industria finanziaria sganciata dall’industria reale» e un fattore di rischio permanente per il sistema. Ci vorrebbe una riforma dell’assetto istituzionale che attualmente sovrintende alla moneta ed alla finanza. Intanto, però, di fronte alla crisi servono scelte immediate.

La proposta. Lo Stato dovrebbe emettere «obbligazioni pubbliche irredimibili», perpetue ed esonerate fiscalmente, riconoscendo ai sottoscrittori un rendimento «pari al massimo dell’inflazione del 2%» previsto dalla statuto della Bce. Un tasso appetibile, che, parafrasando Keynes, andrebbe a costituire «il premio che gli individui pretendono per separarsi dai propri averi finanziari, a misura della loro inquietudine».

Si tratterebbe, ovviamente, di sottoscrizioni volontarie, in cambio di una rendita certa, convenienti anche perché potrebbero scongiurare misure eccezionali da parte del governo, qualora, nei prossimi anni, «non si raggiungessero i rapporti di debito sul Pil concordati a livello europeo».

«L’ideale – dice Savona nel suo intervento – sarebbe di consentire all’insieme delle politiche monetarie e fiscali di cum-petere, concorrere allo stesso fine, per la crescita del reddito, dell’occupazione e del benessere sociale». Purtroppo, però, ad oggi non è così. Come ha rimarcato nel suo messaggio il presidente Mattarella, le politiche della Bce questa volta «sono state determinanti per contrastare le tensioni sui mercati».

Nondimeno, è l’assenza di misure fiscali adeguate che potrebbe far precipitare la situazione. Ecco perché lo Stato farebbe bene a drenare una parte del risparmio privato per aumentare il livello degli investimenti pubblici, senza appesantire il debito.

Ciò che manca nella relazione di Savona – ma non ci si poteva aspettare altrimenti – è una riflessione critica sul modello economico export-led del nostro Paese, del quale, anzi, viene denunciata la «dimensione non ancora sufficiente». Si continua ad omettere che la rincorsa dei surplus delle nostre partite correnti sia iniziata tra il 2012 e il 2013, al crocevia tra recessione e inasprimento dell’ austerità a livello europeo.

In otto anni abbiamo importato di meno ed esportato di più perché gli italiani hanno avuto meno soldi da spendere e i bassi salari hanno sostenuto la competitività delle nostre merci.
Va bene, quindi, la mobilizzazione del risparmio, ma per evitare, innanzitutto, che a pagare la nuova crisi siano gli stessi che ancora non hanno finito di pagare quella precedente.