È tutto un grande addio, un giorno Gondrand passerà – cantava la Fuga all’inglese di Paolo Conte. Chissà perché viene in mente ora. Non la troviamo fra i tanti brani musicali che si affollano nella partitura drammaturgica di Das Weisse vom Ei/Une île flottante, lo spettacolo per molti versi sorprendente con cui Christoph Marthaler ha inaugurato il festival della Biennale teatro. Non è sorprendente che il regista svizzero abbia scelto di lavorare sulle commedie di Eugène Labiche, capofila del vaudeville francese dell’Ottocento, concentrandosi poi su La poudre aux yeux. Non ha moltissimo rilievo quale sia la base testuale delle sue creazioni, siamo cioè al di là della rappresentazione. E resta il sospetto che il suo teatro così allegramente musicale abbia comunque un po’ a che fare con il vaudeville, un vaudeville del XXI secolo naturalmente.

Sorprende per esempio quell’ingresso in fila degli otto interpreti a sipario ancora chiuso. Come a presentarsi al pubblico. (Lo fa spesso invece Robert Wilson). Immobili al posto assegnato, hanno cominciato a dire le loro battute. Brevi, molto ripetitive. Alternando due lingue, come nel titolo dato allo spettacolo, francese e tedesco. Non ci se ne rende conto subito, ma è il distillato di una commedia di Labiche, quello che scorre così sbocconcellato in tre minuti. Una sorta di incomprensibile rewind testuale, di scorrimento veloce che toglie subito ogni illusione di comprensione.

All’interno dello spazio scenico che lentamente si illumina (un mondo chiuso, per potervi penetrare gli attori sono stati costretti a passare al di sotto del sipario), il testo riprende invece rallentato fino ai limiti di ciò che è sopportabile senza imbarazzo. Una parola, una pausa lunghissima, un’altra parola. Nessun gesto. E così distanziate quelle parole sembrano scolpite, rivelando però il nulla di cui sono fatte, altro che teatro dell’assurdo. A parlare, dai lati opposti della scena, sono all’evidenza marito e moglie. Lui seduto dietro la scrivania; lei su una delle tante sedie e poltroncine che ingombrano la scena.

Se infatti le parole si allontanano l’una dall’altra, le cose sembrano invece stringersi l’una addosso all’altra in quello spazio chiuso che rappresenta la casa. O forse bisognerebbe scrivere la Casa, con la maiuscola, in quanto paradigma dell’istituzione borghese che tutto tiene insieme, famiglia, ambizioni, decoro… Non c’è un angolo libero nella scena disegnata come sempre da Anna Viebrock. Ritratti di famiglia anche assai grandi alle pareti. Tavoli e sedie e divani. Allusivi animali impagliati. Un’arpa, che suona però come un pianoforte. Anche la ribalta è occupata da una schiera di tavolini zeppi di ninnoli.

Di cosa può parlare la vecchia coppia? Soldi e matrimoni, naturalmente. Lui è un medico senza pazienti, salvo un cocchiere che ha preso un calcio dal cavallo. Lei osserva con preoccupazione l’eccessiva assiduità con cui il maestro di musica della figlia frequenta la casa. Bisogna che chiarisca le sue intenzioni. Eccolo infatti il giovanotto, che cammina un po’ storto solo per segmenti di retta e pronuncia a ripetizione il nome di lei, Emmeline, in una specie di implorante lamento. Mentre la ragazza gli risponde con un latrato gutturale. E c’è anche un maggiordomo o maestro di cerimonia anglofono che manovra con gesti teatrali il telecomando con cui può togliere il sonoro alla scena, dove il continuo scampanio di una pendola si sovrappone alla musica da film in sottofondo. Quando compaiono anche i genitori del giovanotto il gruppo di famiglia si completa. Parlano lingue diverse ma sono la stessa cosa, due diverse coniugazioni della stesa realtà (umana, sociale…), non cambia infatti la casa che ci siano dentro gli uni o gli altri.

Dalla commedia di Labiche viene il germe del plot, la spinta a gettarsi mutuamente «polvere negli occhi», cioè a fingere una condizione sociale e mezzi economici che non ci sono, con tutti gli equivoci che ne derivano (ed è interessante che questa pulsione sia attribuita dallo scrittore francese alle due madri). Ma questo pretesto, alla lettera, nelle mani di Marthaler diventa l’occasione per imbastire una girandola di situazioni comiche, di impicci linguistici, di slittamenti di senso, di intrecci testuali ritmati dalla drammaturgia di Malte Ubenauf (vi fanno capolino altri testi di Labiche, monologhi allusivi a storie misteriose, dei versi di Lewis Carrol…).

La partitura gestuale moltiplica le gag spingendo i bravissimi attori senza imbarazzi oltre la soglia dello slapstick delle comiche (il giovanotto scavalca la buccia di banana per terra e mentre si volta soddisfatto a guardarla inciampa e cade; le sedie si rompono e chi sedeva vi rimane incastrato…). Il resto lo fa il tessuto musicale come d’abitudine privo di confini di tempo o di genere (l’orchestra di James Last, lo chansonnier francese Boby Lapointe…), una vera e propria drammaturgia parallela che esplode alla fine con la corale Downtown resa celebre da Petula Clark… Si ride, inevitabilmente. Ma è un riso rarefatto anch’esso. Questa perdita di senso non lascia tranquilli. Si ride di questi personaggi un po’ patetici e un po’ ridicoli, delle loro smanie e delle loro ambizioni sbagliate. Questa «ile flottante», quest’isola galleggiante non è insomma solo il dolce più banalmente esotico della cucina francese ma un mondo che va alla deriva.

Alla fine, gli attori cominciano a svuotare la scena. Tirano giù i quadri. Portano via le sedie. Infilano gli oggetti dentro gli scatoloni di cartone. Quando nulla è restato, se ne vanno uno alla volta, dopo un ultimo sguardo a quella che era stata la loro casa, mentre risuona l’Ave Maria di Schubert e una rimasta lì, incapace di allontanarsi, ripete incantata «io… casa… io… casa». In attesa che un camion giallo porti via tutto.

E in quel momento è quasi inevitabile la commozione, dannato Marthaler. Perché li conosciamo quei personaggi di cui abbiamo riso, dietro la maschera farsesca ci sono più vicini di quanto si voglia ammettere. E quel grande addio stringe il cuore.