Governance è termine sempre più ricorrente nel dibattito economico e politico che descrive e comprende i processi e le interazioni di un sistema sociale. Poi c’è il governo, ovvero la macchina organizzativa che presiede, indirizza o gestisce la governance. E poi c’è il capitale finanziario, con la sua struttura opaca, mobile, evanescente, ma strutturalmente autoritaria che ha conquistato posizioni di dominio anche in tema di alimentazione.

Il tutto si riflette nella leadership delle politiche alimentari globali. Con le imminenti elezioni del nuovo Direttore Generale della Fao, in cima all’agenda della 41° Conferenza dell’Agenzia dal 22 al 29 giugno, la partita investe tutti questi aspetti.
In ballo non c’è soltanto la nomina di un nuovo Dg, ma anche l’indirizzo politico e operativo della più importante Agenzia delle Nazioni Unite specializzata in agricoltura e alimentazione. Uno spazio dove continuare a costruire l’orientamento delle politiche globali, la cui direzione può prendere strade diverse in funzione degli equilibri che si verranno a determinare nel corso e a seguito di queste elezioni.

In una corsa che vede votazioni a eliminazioni progressive ci sono 3 candidati: erano quattro fino al 13 giugno quando si è registrato il ritiro del candidato indiano ed erano cinque ai nastri di partenza quando figurava anche un candidato camerunense. I tre restanti rappresentano distinti modi di intendere sviluppo agricolo, ruolo dell’economia contadina, pertinenza della rappresentanza agricola e della società civile, spazi di manovra del settore privato, natura e funzione di tecnologie e innovazione, liberalizzazione di commercio e mercati, strategie di investimenti, priorità nella tutela delle risorse naturali, misure e rapidità nella gestione del caos climatico, primato della sostenibilità di diete e sistemi produttivi.

SONO ANCHE DISTINTI MONDI per retroterra culturale, geopolitico e di sistemi agroalimentari di riferimento: designati ognuno dai propri governi, i candidati sono Qu Dongyu (Cina), Catherine Geslain-Lanéelle (Francia) e Davit Kirvalidze (Georgia). Una donna e due uomini, tre persone che hanno ricoperto ruoli di governo o sottogoverno come vice-ministri o al vertice di agenzie tecniche; una candidatura asiatica e due europee per una regola non scritta di alternanza tra continenti, dopo l’africano Jacques Diouf e il latinoamericano Graziano da Silva.

E proprio la partita delle alleanze transcontinentali è destinata a fare la differenza: dove fluiranno i voti africani tra post e neo-colonialismo? E quelli latinoamericani tra interessi sud-sud e sollecitazioni nord-americane contro il candidato cinese? E quelli dei tanti stati isolani di Caraibi e Pacifico che pesano tanto quanto quelli delle grandi potenze, spesso accusati di farsi comprare a prezzi di saldo? Sarebbe stata interessante anche la partita tra i giganti asiatici, venuta meno nel momento in cui il governo indiano ha ritirato il suo candidato con una striminzita nota burocratica, ma che sembra lasciare spazio al candidato cinese, magari frutto di un accordo.

INFINE, SE E’ VERO CHE LA FRANCESE e il cinese sono i candidati forti, nella battaglia dei veti incrociati ci può scappare l’outsider? Certo che il candidato della Georgia, all’origine presentato – nei bisbigli dei corridoi della Fao – come «il candidato degli Usa», debole come paese e come profilo, sarebbe la conferma migliore dell’attacco al multilateralismo e a un profilo alto e ambizioso di un’Agenzia Onu intenzionata a forgiare politiche e programmi. Su di lui potrebbero convergere tutti i voti raccolti all’insegna di una crociata «anticinese».

Perché in gioco c’è il braccio di ferro tra potenze così come il ruolo di organismi e politiche internazionali. Il Wto, nume tutelare del libero mercato a cavallo del secolo, non si è rivelato un luogo agevole per dettare le politiche agricole planetarie, mentre l’industria finanziaria – nelle sue molteplici componenti – è entrata con forza sia nella produzione agricola che nella circolazione degli alimenti o nei processi d’innovazione. Nel frattempo, il quadro degli affamati e dei mal alimentati resta drammatico e in crescita, con l’Africa terra di conquista demagogica e prosaica per l’agribusiness.

UN CONTINENTE, IL SOLO, CHE VEDRA’ la sua popolazione raddoppiare. La sua agricoltura continua a poggiare saldamente sull’agricoltura contadina che fornisce più dell’80% dei consumi alimentari e un approvvigionamento in sementi contadine di oltre l’80% delle necessità. Non il problema, ma sani anticorpi, eppure al contempo la testimonianza di un gigantesco spazio di mercato dove l’agribusiness potrà penetrare e strutturare diversamente le scelte fondamentali dei governi locali che debbono destreggiarsi tra guerre, terrorismo, rivolte, crisi sanitarie e smantellamento progressivo degli apparati statali. La Fao potrebbe costituire un utile grimaldello o un intralcio in proposito.

In questo quadro, fin troppo scontato dire che non esiste il candidato o la candidata ideale, essendo tutti privi di una visione che riconosca il primato del diritto al cibo, il superamento del mantra produttivista e liberoscambista o il sovraordinante principio di sistemi produttivi compatibili con i limiti biofisici del pianeta. Ben oltre i rischi rappresentati dalle simpatie pro-Ogm della candidata francese, già ben dimostrate quando era a capo dell’Efsa (l’Agenzia Europea per la Sicurezza deli Alimenti), o dei riferimenti all’agricoltura contadina e – contemporaneamente – all’agricoltura 5.0 del candidato cinese o delle reiterate intenzioni del georgiano di liberare da vincoli statalisti (e multilateralisti) il mercato delle derrate alimentari.

SULLO SFONDO LA QUESTIONE finanziaria della Fao resta fondamentale. Il direttore uscente ha subito costantemente tagli al budget dell’istituzione, compensati solo in parte dai cosiddetti «fondi fiduciari» pieni di condizionalità e mascheramenti delle agende bilaterali dei donatori che così designano priorità di intervento e destinatari dei contributi. In effetti dal 2012, la Fao vive con il cosiddetto «bilancio piatto»: nessun aumento delle disponibilità totale mentre aumentano una serie di costi fissi. Questo ha modificato il peso dei finanziamenti volontari («fondi fiduciari») dei paesi: erano il 56% del bilancio nel 2016/17, sono il 61% nel biennio corrente. Chi metterà quindi i soldi per finanziare il programma della Fao (non enorme, circa 500 milioni annui; per un raffronto, quello del corrispondente Ministero italiano veleggia intorno al miliardo)? Sarà la necessità di risorse finanziarie la porta d’ingresso del capitale finanziario, de facto alterando le regole del funzionamento della Fao (un paese, un voto) per passare direttamente alla regola un dollaro, un voto? In questo scenario, malgrado il nostro paese ospiti la Fao, non ci risulta un gran dibattito: l’Italia salviniana avrà difficoltà a scegliere tra il candidato dell’odiata Francia, così garantendo un voto compatto dei paesi Ue, e quello della via della seta «comunista», quello che potrebbe promuovere un grande balzo in avanti dell’agricoltura mondiale e che sembra in pole position.

** autori del libro «Diritti al cibo!» (Jaka Book)