«Il ritratto dell’uomo Nelo Risi è nei suoi libri, nei suoi documentari, nella sua coerenza, nella sua grazia e bellezza interiore ed esteriore, nella sua indifferenza per il denaro, per il più del necessario; diceva spesso che per un uomo basta coprirsi quando ha freddo, un tetto, ma non di proprietà, e cibo se ha fame»: così Edith Bruck ricorda il compagno di una vita nella breve e intensissima intervista posta in esergo al volume che ne raccoglie Tutte le poesie (a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori «Oscar Moderni Baobab», pp. XXIII-521, euro 22,00), da Polso teso (1956) al conclusivo, testamentario Né il giorno né l’ora del 2008. Ora, in questo succinto profilo di quel «cittadino esemplare» (nato a Milano nel 1920 e morto a Roma nel 2015), non è difficile riconoscere e ritrovare la sostanza profonda di una esperienza di scrittura in versi durata circa undici lustri, sempre improntata a una nobile e mai sentimentale probità di sguardo sul mondo e sulla concreta vita degli uomini, dei fratelli, dei compagni di destino. A un poeta così non sarebbero servite tanto la metafora e l’allegoria, bensì la sicura e mai ingannevole verticalità della lettera.

Il pensiero rivolto a Parini
Lo si è visto bene nella ricezione critica, e proprio a partire dal precocissimo esordio del 1941, dunque in pieno grande conflitto mondiale, con la raccolta di prose poetiche Le opere e i giorni, a voler segnalare fin dal titolo una personalissima cifra di marca tutta pratica e antilirica, si potrebbe dire bonvesiniana, votata a una netta presa di distanza da ogni metafisica e da ogni forma di trascendenza – cifra confermata, prima di meglio solidificarsi nel futuro prossimo della maturità, in L’esperienza (1948), rimembranza spiegata al presente della guerra recente e del dopoguerra, magari col pensiero rivolto a Parini e all’illuminismo lombardo, semmai corretti da una sgranatura musicale dissonante e sghemba fin quasi a ferire l’orecchio, a disturbarlo (tutto il contrario, ad esempio, del melodioso e cantabile Alfonso Gatto).
Giovanni Raboni, che da sempre seguì e accompagnò con speciale attenzione e adesione il lavoro in versi di Risi, esattamente all’altezza di Minime e massime (1962), annotava: «Dunque: tensione morale, letteralità, presenza ‘fisica’ dentro il testo delle sue stesse ipotesi linguistiche. Probabilmente è per quest’ultimo verso che Risi si apparenta a poeti per altro assai diversi da lui: a Pagliarani, per esempio». È qualcosa di più di una semplice suggestione, e inoltre sembra assai pertinente evocare i nomi dei quasi coetanei (nati entrambi nel 1922) Luciano Erba e Bartolo Cattafi, come se i tre avessero scoperto «insieme certi impasti, provato certi spessori», nel mentre si ricordano, accanto a Polso teso (1956, come detto, e poi, in edizione riveduta e ampliata, 1973), Partenza da Greenwich (1954) del siciliano e Il bel paese (1955) del lombardo (di quel lettore d’eccezione che fu Raboni si veda, in proposito, il formidabile Poesia degli anni sessanta, pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1976, che contiene altri due interventi su Risi, rispettivamente dedicati a Dentro la sostanza, del ’65, e a Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa, del 1970).
Ai nomi di Pagliarani, Erba e Cattafi, si potrebbe aggiungere anche quello di Giancarlo Majorino (classe 1927), pensando almeno a La capitale del nord (’59), a Lotte secondarie (’67) e a Equilibrio in pezzi (’71). Una poesia, quella di quest’area, tutta fisica, corporale, materialistica, rivendicativa, prevalentemente civile e che non si mostrava affatto imbarazzata nel ricorso a una serie di linguaggi bassi, impuri e sporchi, da quelli tecnici a quelli giornalistici, nel mentre non rinunciava a coltivare una vena di asciutta, disossata ed epigrammatica moralità, utilizzata come uscita di sicurezza dal post-ermetismo da un lato e, dall’altro, dalla scuola neorealista.
Ma in Risi poi il ricorso alla sentenza e alla frase scorciata è anche, oltre a un sintomo di personalissimo ritegno, una sorta di valvola de-nevrotizzante rispetto al sentimento di spavento verso le cose e verso lo spietato latrare della natura (Cesare Garboli scrisse nel 1959 un saggio, confluito dieci anni dopo nel volume La stanza separata, intorno a «Risi e alla Ginestra», laddove pure si segnalava un «eccesso della lettera»). Il voler essere assolutamente civile, dunque. E, difatti, Pensieri elementari del 1961 include le due serie di Civilissima (Risi ‘civilissimo’ lo fu sempre, anche nel suo cinema, e basterà qui ricordare il documentario sul martire anarchico Giuseppe Pinelli).

Il bilancio critico di Raboni
Nell’introduzione all’«Oscar» Mondadori che raccoglieva una scelta delle poesie – nel 1977, ossia l’anno successivo all’uscita di Amica mia nemica – ancora Raboni faceva il punto circa una serie di acquisizioni critiche e un bilancio provvisorio attorno a quel percorso oramai consolidato e sicuro. Quegli elementi così venivano riassunti ed elencati: «Da una parte, la natura strettamente politica e attuale del ‘messaggio’, l’efficienza, la letteralità dell’impegno gnomico; dall’altra, l’adozione integrale e paritetica di linguaggi altri, l’uso di una pronuncia che tende a livellare, idealmente, testo e contesto, immagini e ‘materiali’», con, infine, a completare il quadro, la forte sottolineatura su come quella scrittura risultasse «essenzialmente non metaforica». Ecco allora spiegarsi l’origine di quella musica dissonante, a volte quasi metallica e insieme (o forse proprio per questo) così struggente e umanissima e fraterna, ecco lo «stilismo dell’usuale» (secondo una formula di Pier Vincenzo Mengaldo), ecco la caustica ironia, proprio negli anni di ritorno dell’orfismo, sui fabbricanti del “bello” (che è il titolo, virgolette incluse, del libro del 1983); ecco quel tono basso, quotidiano delle raccolte successive – Risonanze (’87), Mutazioni (’91) e Ruggine (2004) –, tutto nel segno di una coerenza non comune, di una lucidità scabra e (va ripetuto) antilirica, di una coscienza inquieta e d’aspro sentire. Nessuna idea di trascendenza lo investe, nessuna fede persino nella poesia medesima («Bisogna che il poeta oggi si renda conto che non ha nessuna missione da compiere: deve ridimensionarsi e muovere con i piedi ben saldi sulla realtà se vuole ottenere un risultato non effimero nel segno di quella ‘grazia’ che non è appannaggio dei mistici se lo stesso Marx la poneva come traguardo del sogno rivoluzionario», annotava nel 1977).
Pure, e forse a dispetto di se stesso, Risi in qualche modo ha creduto fino all’ultimo, la mente giovane e aperta, disincantata e tuttavia combattiva, sempre navigando in mare aperto. A dimostrarlo resta il suo estremo, testamentario libro composto nel 2005, Né il giorno né l’ora, che si presenta come un campo di indomabili tensioni, di inesauste domande. La sapienza acquisita non cancella la forza del dubbio, né l’impellenza delle domande ultime e neppure si fa meno spietato il rovello dell’autocoscienza. O, ancora, meno radicale la riflessione intorno alla scrittura (così «lo scrivere è difficile / non si è mai sicuri di niente occorre / che l’energia si tramuti in valore» e, inoltre, «nell’incertezza è l’ombra / di una realtà a venire (che l’opera / duri a lungo è ridicola pretesa) / siamo tutti per la stessa strada / che a lei porta – / con la morte / non si è di casa». L’attenzione per la vita biologica si fa più acuta, così come per le trasformazioni, le derive e le sconfitte del corpo: «Il mattino scoprì il corpo / con le sue rughe dentro / che la sera aveva stemperato – tienti fuori / in tarda età una luce interiore / troverà il suo compenso: è l’altro volto / dell’amore appagato / a ogni età il suo momento». O anche, più apertamente: «Tutta la vita è vita del corpo / ah! La semplice salute che è / degli animali». Oppure, infine: «È la nuda terra che mi lega al mondo / non il cielo». Bisogna sempre guardarsi dalla vecchiaia dei poeti. Mai sottovalutarla, in altri termini.