Ancora un saggio su Pasolini? Forse non è ingiustificata l’insofferenza che può capitare di provare per il recente moltiplicarsi degli studi sulla sua vita e la sua opera, soprattutto quando risultino marcati – come è accaduto negli ultimi anni, con le dovute eccezioni – da striscianti presupposti moralistici, da ansiosi tentativi di attualizzazione (in chiave tanto progressista che neo-conservatrice), da vitalismi filosofici superficialmente antagonisti.

CON TANTA MAGGIORE soddisfazione va allora salutato il volume di Bruno Moroncini La morte del poeta. Potere e storia d’Italia in Pier Paolo Pasolini (Cronopio, pp.155, euro 12), che discute aspetti determinanti del lavoro e dell’esistenza dello scrittore senza indulgere in nessuno degli stereotipi (e, per così dire, degli anti-stereotipi) che continuano a offuscare la ricezione della sua opera a cent’anni, tra non molto, dalla nascita.
Nel prendere le mosse dai tratti essenziali della vocazione specificamente poetica di Pasolini, il libro chiama in causa le sue analisi sul potere e le sue interpretazioni del contesto storico contemporaneo con una profondità e un rigore che non si accontentano di evocare le prospettive foucaultiane – come è divenuto pressoché usuale – e nemmeno di rilevare la pertinenza delle «profezie» pasoliniane sul neocapitalismo e sugli effetti nefasti della credenza nel «diritto al consumo».

MORONCINI INSISTE sulla prossimità dello scrittore a quella riflessione europea sulla letteratura che da Benjamin a Blanchot, da Deleuze a Barthes ha posto con forza l’esigenza di sottrarre la scrittura alla coazione narrativa – quasi sempre conformistica o «istituzionale» – per indirizzarla invece verso la significazione delle impasses del desiderio soggettivo e la messa a fuoco delle forme di sopraffazione e di violenza precipue dell’epoca. Sicché snodi centrali di La morte del poeta sono la rilettura – in chiave psicoanalitica (freudiana e lacaniana) – dello straordinario appunto 67 di Petrolio, intitolato «Il fascino del fascismo», e l’interrogazione delle ragioni che suggerirono a Pasolini di porre a esergo del «romanzo» il verso di Mandel’štam «col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili».

IN QUESTI E ALTRI luoghi, spiega Moroncini, emerge la consapevolezza dello scrittore che il potere contro cui si lotta, e che a sua volta senza quartiere combatte chi gli si oppone, è in effetti qualcosa che lega gli uomini sin dall’infanzia e che corrompe dal di dentro ogni condotta e volontà di ribellione. Il potere, cioè, si fonda appunto su un «vincolo» che si istituisce quando l’uomo è puer.
Si tratta di un legame che opprime i soggetti stabilendosi originariamente nella loro psiche, se è vero che li costringe alla rincorsa, perennemente ripetuta, di un’immagine della vita come di un «tutto meraviglioso, esaltante», e insomma alla ricerca di un godimento più forte di ogni cosa, la cui stoffa è fatta delle prime eccitazioni, dei primi desideri, delle «identificazioni primarie del bambino».

A PARTIRE da questa prospettiva il libro dipana un’indagine documentatissima e avvincente del rapporto tra la posizione soggettiva di Pasolini, così come si radica nella sua vicenda esistenziale (anche e soprattutto in riferimento alla «scelta» sessuale masochista) e gli esiti delle sue opzioni estetiche e politiche.
La posta in gioco dell’opera di Pasolini, mostra La morte del poeta, sta nell’individuazione di una posizione desiderante e di una pratica di scrittura capaci di destituire il fascino con cui il potere vincola le soggettività: di intaccare i fondamenti stessi grazie ai quali il legame sociale ingiusto e agglutinante riesce a perpetuarsi.