Jeff Flake, il 55enne senatore repubblicano dell’Arizona, tra i principali critici di Trump, durante un intervento a difesa della libertà di stampa ha paragonato il presidente Usa a Joseph Stalin.

L’attrito tra i due è di lunga data, durante le recenti elezioni in Alabama, Flakes aveva finanziato la campagna del candidato democratico per ostacolare l’elezione del repubblicano suprematista sostenuto da Trump, non è quindi un mistero la sua avversione per The Donald.

Il paragone con Stalin è nato in riferimento all’espressione «nemici del popolo» usata da Trump e che Nikita Krushiov vietò, dicendo che era stata introdotta da Stalin per «distruggere gli individui che dissentivano dal leader supremo». Flake ha attaccato Trump anche per le offese ai media, chiamati «fake news».

«L’ultimo anno ha visto un presidente americano non solo prendere in prestito un linguaggio dispotico per riferirsi alla libera stampa ma anche ispirare dittatori e leader autoritari con il suo linguaggio», e ha continuato ricordando che anche Assad, Duterte e Maduro hanno usato l’espressione fake news per respingere notizie critiche nei loro confronti.

Al momento Trump è alle prese con problemi più grandi: la Corte Suprema ha annunciato di stare valutando se il presidente ha l’autorità di bandire i viaggiatori di alcuni Paesi in nome della sicurezza nazionale, e facendo un esame approfondito dei poteri presidenziali. In ballo c’è la possibilità concreta di doversi confrontare con uno shutdown, il blocco dei fondi per finanziare i servizi del governo, a seguito della mancata approvazione della legge annuale di rifinanziamento da parte del Congresso.

Il problema per Trump non è solo la scontata divisione tra democratici e Gop ma anche la frattura sempre più profonda tra diverse anime repubblicane, più o meno lontane dal presidente.

Ogni autunno il Congresso dovrebbe passare un budget per finanziare il governo per un anno, tutto ciò di solito non avviene in tempo e il Congresso prende tempo, diciamo che spinge il pulsante snooze approvando un piano a breve termine per cercare un accordo per un piano a lungo termine.

Questo Congresso finora ha approvato tre piani a breve termine, l’ultimo scade stasera.

La scorsa notte il piano è passato alla Camera ma al Senato è tutta un’altra storia.

Ci sono ragioni di scontro ovunque. Il primo argomento di attrito è l’immigrazione: i democratici potrebbero bloccare la legge se non includerà una soluzione per il Daca, il programma che protegge i Dreamers, cioè le persone arrivate illegalmente in Usa da bambini e che Trump vorrebbe espellere. Questo disegno di legge non li protegge.

Il secondo è Chip, il piano che fornisce l’assicurazione sanitaria a milioni di bambini provenienti da famiglie a basso reddito, e che sta finendo i soldi. I repubblicani hanno aggiunto fondi per 6 anni per il Chip, ma sembra un elemento di contrattazione per far salire a bordo i democratici se dovessero perdere la battaglia per il Daca.

Poi c’è la storia del muro col Messico, a cui solo Trump tiene tantissimo.

L’ultima volta che il Congresso ha approvato il budget in tempo è stato nel 1996, ora se il Congresso non sarà riuscito a risolvere il problema dei fondi entro venerdì sera, invece, si andrà al primo arresto dal 2013, quando lo shutdown l’avevano fatto i repubblicani per cercare di escludere dal bilancio l’Obamacare.

In questo caos Trump ha convocato alla Casa Bianca il senatore newyorchese Chuck Schumer, leader del partito democratico, per riaprire la comunicazione sul bilancio e le trattative sull’immigrazione.

Mentre scriviamo non è ancora chiaro se e a quali condizioni lo shutdown sia scongiurato, ma per precauzione Trump ha cancellato i suoi piani di recarsi nel suo resort in Florida. Rinunciando al golf resterà a Washington fino a quando non verrà approvato il bilancio.