Oggi è l’ennesimo giorno del giudizio per Theresa May, il suo governo e la fantasmagorica British Exit. Si tiene il cosiddetto “voto significativo” (meaningful), il pronunciamento del Parlamento sull’accordo di uscita siglato con Bruxelles: un voto che la premier aveva fatto di tutto per evitare e che era solo riuscita a posticipare a dopo la pausa festiva, esasperando Camere e Paese.

Ennesimo, si diceva. In una vicenda politico-istituzionale tanto inedita e imperscrutabile, dove i giorni del giudizio hanno ormai cadenza settimanale, non si tratta altro che di un passaggio di ordinaria crucialità per la leader più debole (è sopravvissuta a una fronda interna prima di Natale, ieri ha subito un’altra defezione di un capogruppo) nel negoziato più difficile. Da mesi ci si attende che la fiducia di oggi finisca in una sconfitta del governo e del suo deal. Il voto arriva dopo un rinvio di un mese (doveva tenersi lo scorso undici dicembre) dettato dalla nuda e cruda paura di perdere.

MAY, PREMIER DI MINORANZA sostenuta (o meglio, guinzagliata) da dieci deputati del Dup, ha fatto l’impossibile per evitare quella che subito dopo la presentazione della bozza di accordo pareva la cronaca di una sconfitta annunciata.

L’accordo siglato da lei e Michel Barnier, infatti, non piace a nessuno, e trasversalmente: un centinaio di deputati conservatori uscitisti non lo vuole, stessa cosa per i deputati nord-irlandesi, che aborrono il backstop, ovvero il dispositivo di sicurezza per evitare un confine fisico fra Irlanda e Irlanda del Nord, che rischierebbe di mantenere l’Irlanda del Nord – e potenzialmente tutto il Regno Unito – dentro l’Ue indefinitamente fin quando non saranno pronti i nuovo accordi commerciali fra le parti e che il Dup vede come un cuneo nel cuore dell’Unione del regno. Questo condannava la premier all’appoggio laburista, difficilissimo da ottenere vista la comune ostilità del partito all’accordo: parte dei deputati laburisti sono allineati con il leader Corbyn nel richiedere elezioni anticipate, il resto (l’ala centrista/mercatista/moderata) è schierata a favore di un secondo referendum.

Per poter sopravvivere May ha dunque posticipato il voto a oggi, sperando nel frattempo di riuscire a strappare a Bruxelles delle assicurazioni legali sulla temporaneità di detto backstop per placare il malcontento parlamentare diffuso e di alterare a suo favore gli equilibri numerici dell’aula. Assicurazioni che, prevedibilmente, non ha ottenuto se non in proforma, giacché Bruxelles aveva fin dall’inizio sottolineato come la sostanza dell’accordo non fosse modificabile.

Difatti, la letterina di Jean-Claude Juncker e Donald Tusk ricevuta da May proprio ieri con cronometrica precisione politica cambia assai poco. Non contiene la data di scadenza del backstop, dunque non conferma la temporaneità del perdurare dello status quo commerciale fra Regno Unito e Unione Europea, l’unica cosa che davvero serve per tenere a galla la premier e il suo meschino accordo. Ma lei insiste: o il mio deal, o il Paese esce «duramente» dal mercato unico e dall’unione doganale. Oppure, ammonisce, c’è il rischio che addirittura rimanga sine die nell’Unione, eventualità che porterebbe quasi certamente problemi di ordine pubblico in una società civile divisa in maniera lancinante. Se May vincesse di misura potrebbe invece guadagnare altro tempo, rinegoziare sulla base di qualche altra concessione strappata a Bruxelles e ritentare il voto. Ma nel caso di una sconfitta netta, tutto potrebbe ricominciare da zero.

JEREMY CORBYN, che finora ha rifiutato di schierarsi con i moderati del partito a favore di un secondo referendum, ha anche tergiversato rispetto all’intavolare una vera e propria mozione di sfiducia, nell’attesa del momento più adatto, dato che il partito non ha i numeri da solo. Nel caso il governo fosse oggi sconfitto questo momento diventerebbe certo, anche se il leader laburista non ha confermato esattamente quando. Il suo piano è di portare il Paese alle elezioni politiche anticipate in modo da rinegoziare interamente da premier l’accordo con l’Unione Europea, da lui definita «notoriamente flessibile». Per ora, quello che pare fortemente probabile è un’estensione dell’articolo 50 oltre la data ufficiale d’uscita, il prossimo 29 marzo, che né May né Corbyn si sino rifiutati di escludere a priori. Lo sarebbe anche qualora oggi il governo vincesse: la quantità di legislazione che il Parlamento dovrebbe produrre in tutti i casi sarebbe soverchia.