Che la dipartita, legale e fiscale, della Fiat abbia stupito Torino non è vero. Era attesa, doveva essere solo formalizzata, perché è da un pezzo che il baricentro della casa automobilistica non sta più sulla sponda sinistra del Po. Ora che è stata sancita, le conseguenze occupazionali potrebbero non essere così scontate. «D’altronde – sottolinea Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom – Torino, come l’Italia, non è altro che un luogo dei tanti dove il gruppo ha interessi. Non è detto che sia prioritario».

Nel nuovo scenario quale sarà il futuro per Torino?

Quanto deciso è conseguente e coerente alle scelte di un’azienda, che non è più italiana, la testa è ormai altrove, negli Stati Uniti. I governi italiani che si sono succeduti non hanno fatto nulla per condizionare queste decisioni. Resta da capire dove andrà il quartier generale. La fusione con Chrysler produrrà conseguenze non solo sul piano produttivo, ma doppioni e sovrapposizioni, in ambito progettuale e gestionale, in concorrenza tra di loro. A Mirafiori sono 5 mila i lavoratori degli Enti centrali, tra impiegati, quadri e ingeneri, che ogni mese hanno avuto un po’ di cassa integrazione, 3 mila staranno fermi 4 giorni a febbraio. Il loro peso, all’interno del gruppo, si sta progressivamente riducendo. Ed è un processo non concluso.

Vuol dire che ci saranno tecnici e ingegneri in competizione tra di loro?

La Fiat avrà più centri direzionali, quattro vertici (Nord America, Sud America, Europa e Asia), non tutti sullo stesso stesso piano. Si sta pensando a una suddivisione dei compiti, ma, per esempio sul lato progettuale e ingegneristico, potrebbero pesare altri fattori. Un ingegnere italiano costa un po’ meno di uno statunitense, ma più di uno brasiliano.

In maggio Marchionne presenterà l’atteso nuovo piano industriale.

Un eterno rinvio. L’azienda dovrà reperire risorse per fare investimenti. Sarà importante capire quanto gli azionisti principali saranno disponibili a mettersi in gioco. Le loro scelte si riverbereranno sul futuro del gruppo, che, a parte i dati positivi Usa, ha problemi in diversi mercati, non solo in Europa, ma anche in Asia. L’Italia è, ripeto, solo uno degli scenari. Mirafiori ha chiuso l’anno con il minimo storico di 20 mila vetture prodotte, un decimo rispetto a pochi anni fa. Le passate promesse sui modelli sono volate in Serbia e a Melfi. Resta in campo il Suv Maserati, che arriverà nel 2015 e non saturerà l’occupazione delle Carrozzerie, dove, sui 5.400 totali, lavorano attualmente 1.500 dipendenti per tre giorni al mese. Qualcuno è in «prestito» a Grugliasco. Gli altri in cassa a zero ore.

Si torna a parlare dell’arrivo di produttori esteri nel mercato italiano. È un’ipotesi plausibile?

A risolvere l’anomalia italiana, determinata dal regime di monopolio Fiat, non può essere lo stesso Lingotto ma una politica industriale, l’intervento di un governo che è silente rispetto alle ripercussioni occupazionali. Qualcosa nell’automotive si sta muovendo, ma non bisogna dimenticare l’attuale crisi e l’eccesso di capacità produttiva in Europa.

Quando vi incontrerete nuovamente con il Lingotto?

A metà febbraio. Teniamo il canale aperto, ma non ci facciamo illusioni. I tavoli continuano a essere separati. All’incontro con i sindacati dopo il cda (ieri, ndr), la Fiom è stata esclusa per l’ennesima volta.