Nel settembre del 2012 oltre 250 persone morirono in un incendio alla fabbrica tessile Ali Enterprises di Karachi, in Pakistan. Decine di altri rimasero feriti e menomati. Dopo una lunga battaglia legale il principale acquirente della Ali – la tedesca Kik – ha riconosciuto un risarcimento di 5,15 milioni di dollari a un fondo che deve fornire le pensioni per le famiglie colpite. La battaglia sui risarcimenti – che non è ancora conclusa visto che Kik è sotto inchiesta in Germania – non è però ancora l’ultimo capitolo di una vicenda che coinvolge una multinazionale con sede in Italia: la Rina Services, società di certificazione, assoldata dalla fabbrica pachistana, che aveva stabilito che la Ali aveva rispettato gli standard internazionali e nazionali.

La Rina, sotto inchiesta dalla procura di Genova, sembra però non avesse mai nemmeno visitato l’interno della fabbrica. Nemmeno attraverso la sua filiale locale (Rica).

Nel sesto anniversario di quella tragedia, una coalizione internazionale di otto organizzazioni sindacali e di tutela dei diritti dei lavoratori e dei consumatori – nazionali e internazionali – ha presentato un reclamo formale al ministero dello Sviluppo Economico italiano contro Rina, sottolineando non solo il fatto che l’azienda avrebbe potuto prevenire la morte di centinaia di persone, ma il vizio di fondo della filiera delle certificazioni degli standard internazionali (in gergo SA 8000).

Nel suo rapporto, in sostanza, Rina non avrebbe evidenziato una serie di infrazioni agli standard internazionali né le lacune sulle norme di sicurezza pachistane. Omissioni che si sarebbero rivelate fatali: un pavimento costruito abusivamente, un sistema di allarme antincendio che non funzionava e un eccessivo uso del lavoro straordinario affidato anche a minorenni. Infine era stata certificata la presenza di uscite di emergenza e la presenza di materiale antincendio in una situazione in cui le porte erano invece chiuse e le uscite bloccate. L’unico estintore disponibile era inutilizzabile.

Le otto organizzazioni (Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association, National Trade Union Federation, Pakistan Institute of Labour Education and Research, European Center for Constitutional and Human Rights, Clean Clothes Campaign, Campagna Abiti Puliti, Movimento Consumatori, Medico International) vogliono vederci più chiaro e chiedono che Rina renda pubblica la relazione di audit della Ali Enterprises (coperta da segreto societario).
Vogliono però anche che la vicenda della Ali serva a denunciare i difetti del sistema di certificazione in generale. Uno dei punti critici è che ora – in pieno conflitto di interessi – chi paga la certificazione è la stessa ditta che deve essere certificata. Le otto organizzazioni chiedono anche che la Rina si impegni, come ha fatto la Kik, nel processo di risarcimento.

Se Rina è italiana (la sua sede è a Genova e il suo motto è «Eccellenza dietro l’eccellenza»), italiane sono anche due delle associazioni che la accusano: Deborah Lucchetti, della Campagna Abiti Puliti, sostiene che «il rifiuto di fornire informazioni rilevanti in nome degli obblighi di riservatezza ha ostacolato il lavoro dei difensori dei diritti umani e delle parti esterne indipendenti impegnate a ricostruire i fatti e ad accelerare il processo di risarcimento».

Alessandro Mostaccio, del Movimento Consumatori, ricorda che la certificazione SA 8000 dovrebbe costituire una garanzia per l’acquisto di prodotti sicuri: «Rilasciandola alla Ali Enterprises, Rina ha fornito una garanzia ingannevole, gettando una pesante ombra su tutto il sistema di certificazione».