Interrotto il calo dei contagi, ma è “colpa” dei tanti tamponi. In Piemonte il picco non è stato mai raggiunto. Iss: siamo lontani dall’immunità di gregge, per raggiungerla serviranno milioni di vaccini.

IL NUMERO DI DECESSI in 24 ore scende a 525 vittime e il totale sale oltre le 22 mila unità. Ma dopo cinque giorni di calo consecutivi, tornano a salire i contagi rilevati nelle ultime 24 ore. Ieri sono stati 3786, oltre un migliaio più del giorno precedente. La «fase due» sembra allontanarsi, ma scomponendo le cifre emerge un dato interessante: il numero di tamponi cresce (ieri più di 60 mila, mai così tanti) e questo permette ai medici di scoprire anche casi meno gravi. Infatti, nel novero dei malati cresce la componente di pazienti con sintomi lievi. Oggi sono il 72% dei casi positivi, un mese fa erano il 44%. Dunque, se i casi non calano come si desidererebbe, è anche perché la maggiore capacità diagnostica compensa la diminuzione assoluta del numero dei malati.

NELLE REGIONI, è sempre più preoccupante il dato del Piemonte. I nuovi casi registrati ieri nella regione sono ormai paragonabili a quelli della Lombardia (879 contro 941). E non si tratta di un’oscillazione statistica, a cui ci saremmo anche abituati: su base settimanale, il contagio in Piemonte è cresciuto del 32%, quasi il doppio della media nazionale (18%). Il Piemonte non ha avuto zone colpite in modo feroce come il bergamasco, il bresciano o la bassa lodigiana. Ma nella regione la fase di discesa delle curve epidemiche non è mai cominciata davvero, complici anche le residenze per anziani colpevolmente trascurate nei controlli e nelle protezioni.

Ieri sono emersi nuovi focolai nelle case di riposo. In particolare, alla «Villa dei Tigli» di Cavour (Torino), dove sono ospiti 100 persone, sono stati riscontrati 50 casi positivi: un macabro bis della vicenda lombarda? «Non siamo supereroi e i soldi non bastano», è la spiegazione del governatore piemontese Alberto Cirio. «Ci vuole la cultura della convivenza con un rischio grave come quello che stiamo vivendo, una cultura che deve insegnarci a vivere una nuova normalità fatta di maggiore attenzione, evidentemente anche di minori contatti».

PIÙ BALDANZOSO il suo collega veneto Luca Zaia, che addirittura vuole anticipare i tempi fissati dal governo: «Se ci sono i presupposti di natura sanitaria dal mondo scientifico, dal 4 maggio o anche prima si può aprire con tutto», dice. Molte regioni si affideranno ai test sierologici per individuare le persone dotate di anticorpi e pronte per tornare all’attività produttiva (se non lo hanno già fatto). Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e membro del Comitato tecnico scientifico a supporto della Protezione Civile, sbotta: «Quello dei test sierologici è un tormentone».

I test sierologici servono ad altri scopi. Anche l’Iss farà uno screening degli anticorpi, ma a scopo statistico e non per conferire «patentini di immunità» individuali. «Oggi non ci sono le basi scientifiche per dare un patentino di immunità», spiega Brusaferro. «Al momento c’è uno studio di sieroprevalenza per indagare quante persone sono venute a contatto col virus e capire qual è la circolazione. Stimiamo che il 90% delle persone in Italia non è venuto a contatto col virus». Siamo molto lontani dal raggiungimento dell’immunità di gregge, in cui il virus smette di circolare perché non trova facilmente persone da contagiare. «Per avere l’immunità di gregge bisognerebbe avere il 70-80% di persone venute a contatto col virus, dunque l’obiettivo è lontano».

PER L’IMMUNITÀ DI GREGGE servirà piuttosto un vaccino. Sarà obbligatorio? «Quando avremo il vaccino dovremo fare dei ragionamenti per proteggere il maggior numero di persone». Il problema non saranno i No Vax, ma l’accesso alle cure. «Il problema è avere un vaccino, averlo efficace e avere una quantità di dosi sufficienti».

Un altro requisito per l’avvio della fase due sarà la disponibilità di dispositivi di protezione, innanzitutto tra i sanitari. Il conto delle vittime tra medici e infermieri invece continua a salire. Sono 127 i medici morti dall’inizio dell’epidemia e 31 gli infermieri, un terzo dei quali lavorava nelle case di riposo. Circa 1 caso positivo su 10 riguarda un operatore sanitario in Italia, e anche su questo l’Italia va peggio che altrove. Secondo Catherine Smallwood della sezione europea dell’Oms, a livello continentale i casi che riguardano i sanitari sono 1 su 13.