«Mio padre amava ricordarci che soltanto la natura può ripulire i nostri occhi e il nostro sguardo»

È con tenerezza e malinconia che Ahmad Kiarostami, figlio di Abbas e fondatore della Kiarostami Foundation, conclude la nostra conversazione. Ospite del festival fiorentino «Lo Schermo dell’Arte», Ahmad ha accompagnato l’anteprima italiana di 24 Frames, capolavoro postumo del padre presentato a Cannes lo scorso maggio.

Apparso da bambino in Gozaresh del 1977, Ahmad Kiarostami ha lavorato, in anni giovanili, sui set del padre come assistente ma poi hai scelto un percorso di vita lontano sia dall’Iran che dal cinema e 24 Frames ha rappresentato per lui un doppio ritorno alle origini.

Ahmad, puoi raccontarci come è nato «24 Frames» e come tuo padre aveva concepito il film?

Ha cominciato con il ragionare su alcuni quadri e a domandarsi, cosa che «appare» a inizio film, cosa ci fosse prima e dopo. Nel progetto iniziale, mio padre aveva pensato, oltre alle fotografie, anche a sei dipinti, compreso un Picasso, tutti a carattere «naturale», ma poi ha deciso di lasciare unicamente Cacciatori nella neve di Bruegel e, per i frames successivi, ad «animare» le fotografie realizzate nel corso di quattro decadi. Ha lasciato 40 frames, alcuni incompiuti, di altri invece non era pienamente soddisfatto, ma i 24 che compongono il film sono stati «finiti» tutti da lui. Alcuni erano già stati proiettati, a Venezia per esempio, poco dopo la sua morte, ma anche a Lione nel 2015, mi riferisco al frame 2, quello dei cavalli nella neve, che mio padre aveva voluto dedicare a Martin Scorsese.

Il tuo coinvolgimento nel film è avvenuto dopo la scomparsa di Abbas. Come sei riuscito a terminare il lavoro, anche da un punto di vista emozionale? Tuo padre aveva lasciato delle note, qualche indicazione?

Mio padre non ha lasciato delle direttive su come concludere il lavoro anche perché la sua scomparsa è stato qualcosa di completamente imprevisto visto che, cinque giorni dopo la sua morte, avrebbe dovuto recarsi in Cina per iniziare il suo prossimo film e non era malato come i giornali inizialmente hanno scritto. Riguardo al film, lui fino all’ultimo ha lavorato con Ali Kamal che ha realizzato le animazioni. Ha lavorato a casa, insieme a mio padre, con il suo computer. Non è stato realizzato nulla in studio, avevano un green screen a casa e lavoravano su quello. Il mio coinvolgimento nel film si è limitato alla post produzione e al rifinire la digitalizzazione degli strati di ogni singolo frame. La cosa più difficile, per me, è stata provare a capire come mio padre avrebbe voluto concluderlo, non parlo del finale perché il 90% di 24 Frames era già terminato…

Oltre a 24 Frames, tuo padre ha lasciato altri lavori incompiuti?

Oltre al film, mio padre ha lasciato unicamente due serie di fotografie: una recente, l’altra più «vecchia». La prima si chiama Regardement e riguarda l’interazione fra esseri umani e opere d’arte. È diversa rispetto alle altre perché è l’unica dove la presenza dell’uomo è massiccia. L’altra serie di foto invece mette in relazione quadri di Monet e i suoi scatti, si chiama Monet and Me. Con la Kiarostami Foundation, da me fondata, porteremo queste serie di foto a marzo al Louvre. Mio padre non si considerava un regista ma un artista desideroso di esprimersi attraverso diverse forme d’arte e il cinema era soltanto una di queste.