Il via libera da parte del Senato, lo scorso 12 gennaio, alla ratifica della Convenzione n.190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro per il contrasto alla violenza e alle molestie sui luoghi di lavoro è un passo importante che fa da apripista per la presa in carico di un problema purtroppo in crescita a livello globale.

LA RATIFICA PER LA PRIMA VOLTA STABILISCE gli obblighi legali dei singoli Stati per agevolare l’accesso alla giustizia in caso di violenze o molestie, subite non solo suol luogo di lavoro, ma anche sul trasporto per arrivarci e implementa il monitoraggio attribuendo maggiori poteri agli ispettori. Obbligando i singoli stati ad aggiornare il proprio sistema giuridico affinché ne sia resa possibile l’attuazione, anche in presenza di contratti precari, la convenzione permetterà di «non lasciare alla discrezionalità del singolo giudice la gestione di questi casi» come ha diramato all’indomani del voto l’associazione nazionale D.i.Re, Donne in Rete contro la violenza, attraverso la voce della legale Francesca Garisto. Ma la ratifica ha anche il merito di portare l’attenzione su come le violenze di genere siano facilitate dai processi di produzione sregolati del mercato.

LA CAMPAGNA ABITI PULITI, CHE DA TEMPO SI BATTE per la ratifica della Convenzione ILO 190, sottolinea come a livello internazionale la pressione produttiva, che ha effetti nefasti sull’ambiente, abbia forti conseguenze anche a livello lavorativo. Il comparto tessile, dove l’85% per cento della forza lavoro globale è femminile, ne è un esempio.

CON UN VALORE DI MERCATO CHE SUPERA I 400 miliardi di dollari, l’industria della moda è una delle più attive nel mondo e una delle più inquinanti. Gli ultimi studi parlano di un consumo di abiti pressoché raddoppiato negli ultimi 15 anni, mentre decresce la percentuale di tempo del loro utilizzo. Quello che ne deriva è in pratica «un largo impiego di risorse non rinnovabili per produrre vestiti che spesso vengono usati per un breve periodo» come afferma il report sull’economia tessile di Ellen Macarthur Foundation, secondo il quale l’impiego di petrolio, fertilizzanti e prodotti sintetici per accompagnare l’intero ciclo produttivo, dalla materia prima allo smaltimento, consuma annualmente 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili e 93 miliardi di metri cubi d’acqua.

L’INCENTIVAZIONE ALL’ACQUISTO SI TRADUCE nel fenomeno del cosiddetto fast fashion, che offre abiti economici per un rapido consumo. Ma il basso costo, si sa, ha delle ricadute, sia ambientali che sociali. «Le pratiche di acquisto estremamente competitive si riversano sui lavoratori delle filiere internazionali, in particolare le donne, costrette a lavorare con paghe sempre più ridotte in un sistema sociale gerarchico come è quello patriarcale. Spesso sono le uniche a lavorare in famiglia e si trovano quindi in una situazione di vulnerabilità in cui non si sentono di denunciare» spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti. «Questo ci fa capire come la violenza di genere abbia origine anche da una violenza economica strutturale, reiterata dalle dinamiche di acquisito e da condizioni e prezzi troppo bassi imposti dai brand internazionali».

Dall’ultimo position paper della Clean Clothes Campaign, basato su una ricerca condotta da Bangladesh Center for Workers Solidarity (BCWS) e il network femminista panafricano Femnet, emerge che il 75% delle donne intervistate ha avuto esperienze di violenza di genere sul luogo di lavoro. Una percentuale altissima a cui fanno seguito poche denunce, per la paura di ritorsioni o di perdere il posto di lavoro e le cui criticità ritroviamo in maniera trasversale anche in tutti gli altri ambiti in cui le donne sono costrette a lavorare in situazioni di forte precarietà.

«UN SISTEMA DI QUESTO TIPO AGGRAVA IL PROBLEMA delle molestie, perché nel momento in cui la manodopera è interscambiabile, con contratti di lavoro sempre meno tutelati, lo sfruttamento è sicuramente più diffuso». A parlare è Stefania Prandi, giornalista e fotografa che ha realizzato il reportage pubblicato nel libro Oro rosso, Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. A partire dalle testimonianze dirette e dal lavoro sul campo, l’inchiesta ha puntato i riflettori sulle condizioni di sfruttamento in cui vertono delle donne impiegate nella filiera agricola industriale e i conseguenti abusi, innescando manifestazioni di protesta soprattutto in Spagna e la costituzione del collettivo di donne Jornaleras de Huelva en Lucha, che fa un monitoraggio attivo sulle situazione.

IN ITALIA IL COMPARTO DELL’AGRICOLTURA INTENSIVA, che vede il maggior numero di donne migranti impiegate insieme a quello del lavoro domestico e di cura, con salari ancora più bassi di quelli degli uomini e la mancanza di contratti che permettano di accedere a misure di welfare, è uno dei settori più esposti agli abusi, come evidenzia anche l’ultimo rapporto Agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto e di Flai-Cgil. Anche qui, nelle condizioni definite dalle Nazioni Unite come nuove forme di schiavismo e generate da un mercato dominato dalle grandi aziende distributive, le donne soffrono di uno sfruttamento nello sfruttamento, che non ha fatto che aggravarsi durante il periodo non ancora terminato della pandemia, e di fronte al quale gli appelli alla responsabilità sociale purtroppo non bastano.

LA CONVENZIONE ALLORA POTREBBE ESSERE un principio di maggiore trasparenza nelle filiere internazionali della grande distribuzione, affinché tutti gli attori ne siano responsabili. «Quanto potrebbe cambiare la situazione delle donne al lavoro se i costi pagati dai grandi marchi fossero giusti e comprendessero salari equi, sottraendole in questo modo dal giogo della vulnerabilità economica?» si chiede Deborah Lucchetti «E’ molto importante attribuire delle responsabilità anche a chi normalmente è tenuto fuori dal gioco, perché le cause strutturali della violenza di genere sono da ricercare nella natura estrattivista e violenta del sistema capitalista globale».