La pagina de il manifesto che ogni venerdì la ospita, non prevede che questa rubrica venga corredata da una illustrazione. Così, quando l’argomento del ‘Divano’ è, per l’appunto, la descrizione e il commento di una immagine, il lettore non può avvalersi del riscontro immediato che fornirebbe l’aver sott’occhio una riproduzione dell’opera presa in esame. E giacché in queste note settimanali quello della pittura è uno degli ambiti che vien preso in considerazione assai di frequente e viene, per giunta, trattato col proposito di aderire e dar minuto conto di singoli dipinti e disegni scelti come esemplari (ovvero suscettibili di recare un adeguato contributo a questioni di critica d’arte e di teoria estetica) ecco che, sovente, mi si fa notare il disagio che la mancanza della illustrazione comporta. È accaduto anche in occasione della nota del ‘Divano’ dedicata a Ritratto di signora inglese con cappello e cuffia di Hans Holbein (1497-1543), pubblicata due settimane fa.

Torno dunque sul tema che pure altre volte ho avuto modo di toccare, ora esplicitamente ora implicitamente, riflettendo sulla riproduzione e sulla descrizione d’un’opera figurativa, ovvero ragionando sulle diverse modalità che sono proprie del guardare rispetto a quelle che contraddistinguono il verbalizzare. Insomma torno a considerare, sia pur sommariamente, i processi che conducono alla trasposizione dei movimenti dello sguardo in costrutti verbali, per modo che le parole si combinino alla stregua di una immagine e la configurino coerente all’occhio della mente.

Assimilare l’immagine attraverso una descrizione comporta una sua ri-formulazione altrettanto perspicua, in principio, ma distinta dalla ri-formulazione che si acquisisce posti di fronte alla sua riproduzione. Si può forse convenire su una preliminare (e generale) precisazione: che la descrizione attiva e libera doti immaginative secondando connessioni non pre-vedute, là dove quelle stesse doti immaginative la riproduzione piuttosto disciplina e applica, ad un tempo coordina e circoscrive.

Usciamo per un momento dalle ardue questioni che descrizione e riproduzione dell’opera d’arte sollevano e che da secoli si affidano alla meditazione dei filosofi. Stiamo alla quotidiana esperienza che della dimensione visiva siamo obbligati a fare in una reiterazione permanente di stimolazioni prefissate, erogate per occuparci la mente prima che se ne possa elaborare un loro senso con parole nostre. È quanto accade nella pubblicità che impone una passiva accettazione di scelte e di valori: le sue immagini ci rendono ciechi. Torniamo alle note del ‘Divano’ dove il lettore trova dell’immagine una descrizione, ma non una sua riproduzione. Il lettore è così posto nella condizione di chi, dalle parole che la raccontano, deve formulare a sua volta l’immagine e costruirsela secondo un gioco che, grazie alla puntualità della frase scritta, liberamente le attribuisce i contorni che nascono dalla sua immaginativa.

La scelta di affidare la visibile presenza di opere d’arte figurativa alla loro descrizione richiama antiche questioni. Penso all’ekphrasis di Ermogene (II sec. d.C.) – «un discorso descrittivo che pone l’oggetto sotto gli occhi con efficacia» -, e poi, ai Filostrati, fino ai retori della scuola di Gaza (tra V e VI secolo) che si interrogano sulla forza della rappresentazione visiva formulata nella precisione d’una espressione verbale.

Questioni aperte, che vale la pena considerare con attenzione. Sta di fatto che, non riproducendo l’immagine, ma traducendola in parole, si innesca un dispositivo che è l’esatto contrario di quanto usualmente, oggi, avviene. Tradurre in parole le immagini, descriverle per verba, vale come esercizio critico e acquisizione di consapevolezza. Il ricorso, in queste note del ‘Divano’, a una descrizione e non a una riproduzione dell’immagine, può esser registrato come l’invito a un esercizio intellettuale che vorrebbe indicare una delle vie da tenere per acquisire forme di maggiore consapevolezza nella nostra giornaliera recezione delle immagini.