«Dobbiamo rispettare gli usi internazionali e quindi stringere la mano ai negoziatori delle potenze internazionali, ma subito dopo dobbiamo contare quante dita ci rimangono».

È con queste parole caustiche che l’ayatollah Abdollah Javadi Amoli commenta la ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano. Nella sua abitazione nella città santa di Qum, l’ayatollah si rivolge al ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian.

DOPO CINQUE MESI di stallo, sono ripresi a Vienna i colloqui tra la squadra di Teheran e i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) più la Germania.

Gli iraniani hanno presentato nuove proposte sulla rimozione delle sanzioni, mentre gli altri criticano il fatto che Teheran voglia far avanzare le sue attività nucleari e sono esasperati dalla lentezza delle negoziazioni. Sottoscritto nel 2015, l’accordo prevede il controllo dei siti nucleari iraniani da parte degli ispettori dell’Aiea in cambio della fine del regime sanzionatorio.

Raggiunta dopo un intenso lavoro diplomatico, l’intesa era stata mandata a monte dal ritiro unilaterale dell’amministrazione Trump e dall’imposizione dell’embargo. Il risultato è stata una grave crisi economica, esacerbata dalla pandemia. In quattro mesi di amministrazione Trump, la valuta iraniana ha perso l’80 percento del suo valore.

Di conseguenza, firmando l’accordo nucleare il presidente moderato Rohani è stato accusato di aver svenduto l’Iran in cambio di niente. Ora il suo successore, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, afferma che «se le altre parti che partecipano ai colloqui di Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare del 2015 sono determinate a rimuovere le sanzioni, raggiungeremo sicuramente un buon accordo. Le sanzioni contro l’Iran sono contro la base dell’economia del paese. La strategia del nemico (gli Usa, ndr) è di proseguire con le sanzioni, la nostra è andare oltre le sanzioni attraverso due vie, annullandole e intraprendendo azioni serie per rimuoverle».

INTANTO A TEHERAN il giornalista Davood Abbasi ha raccolto la testimonianza di fonti governative iraniane secondo cui l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri Joseph Borrell si sarebbe irritato per la posizione estremamente critica nei confronti dell’Iran assunta dal terzetto dei paesi europei, Francia, Germania e Gran Bretagna.

«Ci si domanda – afferma Abbasi – se l’Europa sia adeguatamente rappresentata dalle tre nazioni presenti a Vienna. A tal proposito pare che la risposta dell’Alto commissario Borrell sia negativa». Intanto l’Italia, principale partner europeo dell’Iran prima delle sanzioni di Trump, resta fuori dai negoziati: «Non vi è stata alcuna dichiarazione delle autorità italiane, né a favore né contro l’accordo», osserva Abbasi.

Non essere parte della squadra dei negoziatori sul nucleare penalizza però le imprese italiane, ma così era stato deciso dall’allora premier Berlusconi che alla nostra domanda sul perché di quella scelta rispose: «È stato il mio amico George W. Bush a chiedermi di starne fuori». Paradossalmente, continua Abbasi, «paesi che hanno relazioni molto meno intense con l’Iran, e penso agli Emirati arabi, auspicano un ritorno alla diplomazia evitando un’intensificazione delle sanzioni».

L’IRAN RESTA un paese isolato e frainteso dagli occidentali, italiani inclusi. Venerdì scorso la Cassazione ha accolto il ricorso dei familiari delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle contro la sentenza della Corte di Appello di Roma che nel dicembre 2020, dopo aver dissequestrato 4,5 miliardi di euro dell’Iran, non aveva riconosciuto la validità del verdetto con cui nel 2012 la Corte federale di New York aveva condannato l’Iran, i suoi ministri e la Banca centrale iraniana a risarcire i danni per i morti nell’attacco terroristico.

Per la Cassazione, invece, la normativa statunitense applicata per combattere il terrorismo è compatibile con il nostro ordinamento. Ora appello bis. Ma intanto passa l’idea – assurda – che l’Iran abbia avuto un qualche ruolo negli attentati dell’11 settembre.