Il Pil cresce in Italia del +1,5%, nelle altre quattro principali economie europee (Regno Unito, Germania, Francia, Spagna) del +2,1%, nell’insieme di tutti i paesi Ue del +2,3%. Negli ultimi tre anni – i mille giorni di Renzi – i dati per gli stessi paesi erano stati: +1,7%, +3,7%, +3,9%. Gli effetti della più bassa crescita, di ieri e di oggi, sono questi: il Pil italiano nel 2007 era pari al 14% di quello Ue, nel 2014 è sceso al 12,7%, adesso è precipitato al 12,3%.
L’Italia in Europa è sempre più piccola, cammina più lentamente, ma, è vero, cammina. In un paese serio ci si dovrebbe confrontare per consolidare e potenziare la ripresa e, soprattutto, per qualificarla. Ma siamo in questa Italia e il duo Renzi–Boschi ha ricominciato a glorificare la sua opera e ad attaccare i vecchi gufi. Quindi possiamo darlo per scontato, a settembre, ricomincerà la guerra dei numeri per risollevare le quotazioni di Renzi a colpi di bonus e meno tasse. Ma poiché mancano ancora un po’ di giorni proviamo a fare un tentativo estremo di lettura corretta di questa ripresa per trarne indicazioni politiche di breve medio periodo.

Penso si possa partire da pochi punti fermi.
1- La ripresa c’è. La lunga crisi iniziata nel 2008 si era protratta fino a metà del 2013. Da allora, sei mesi prima del governo Renzi, si era passati dal meno al più per due trimestri consecutivi ed il Pil si era stabilizzato su 385 miliardi a trimestre. Adesso il segno positivo si è consolidato. Va potenziato.
2- Questa ripresa è molto trascinata dall’export. In un mondo globalizzato in cui le economie sono fortemente interconnesse, molte piccole e medie imprese italiane hanno saputo sfruttare la fase espansiva globale. Bene, ma serve una spinta da domanda interna.
3- La ripresa è un concetto che comprende una serie di fattori come produzione, occupazione, consumi, investimenti, distribuzione dei redditi e tanto altro ancora. Essi hanno andamenti differenziati. Quindi, la forza e la durata di questa ripresa dipenderanno dalla sua diffusione all’intero sistema economico e sociale e, soprattutto, all’occupazione.
4- Nei cosiddetti “mille giorni” i dati sull’occupazione sono stati questi: Italia +2,8%, altri quattro principali paesi +3,8%, intera Ue +4,3%. Quindi, anche l’occupazione in Italia è cresciuta meno che negli altri paesi europei. Non solo, ma si tratta di una crescita molto squilibrata: l’occupazione totale è aumentata di 700 mila, ma quella dei giovani sotto i 35 anni non è aumentata per niente, quella delle persone da 35 a 50 anni è addirittura diminuita di 300 mila e quella degli ultracinquantenni è aumentata di ben un milione. Insomma le politiche tanto decantate per l’occupazione giovanile non hanno funzionato, quelle opposte per trattenere al lavoro i pensionandi sì.

Queste poche constatazioni ci dicono che siamo davanti ad una ripresa senza lavoro per i giovani e troppo dipendente dalle condizioni favorevoli esterne.
Esse lanciano alla politica una doppia sfida: dovremmo crescere più degli altri paesi, e non vedere crescere solo il Pil, ma anche l’occupazione giovanile.
Possibile? Penso di sì, se si cambia verso, ma veramente nel senso che si fanno poche cose, ma mirate.
Proviamo anche qui a fissare alcuni punti.
1- Abbiamo in questi anni privilegiato interventi volti a ridurre il costo del lavoro ritenendo questo il motore primario per la competizione e la crescita, ma senza commisurare gli sgravi ai risultati in termini di durata, stabilità, effettivo saldo positivo degli occupati.
2- Abbiamo puntato a favorire investimenti in innovazione rivolti genericamente a tutti i settori produttivi senza valutare le interdipendenze tra i settori e distinguere tra settori trainanti e settori dipendenti, né tantomeno tra quelli ad elevato contenuto di lavoro e quelli a bassa intensità.
3- Gli effetti di queste politiche sono stati modesti perché gli interventi sono stati fatti sotto la spinta degli interessi organizzati e delle esigenze elettorali e non guardando alla struttura produttiva, settoriale, territoriale e dimensionale del sistema Italia. Senza, quindi, un progetto industriale per il futuro.
Siamo un paese con molti requisiti positivi per un modello di sviluppo nuovo ed alternativo (storici, culturali, ambientali). Accanto ad esse, altra faccia della medaglia, sussistono peculiarità negative (vetustà ed abbandono di centri storici, dissesti ambientali, frequenza di movimenti tellurici…).
Si crea, così, un circolo vizioso perverso tra risorse che servirebbero per valorizzare l’esistente – investimenti sul futuro – e risorse assorbite per tamponare le emergenze. Possibile fare di questa contraddizione un motore sincronizzato di ripresa economica?

I settori della manutenzione abitativa ed ambientale sono a forte ricaduta sia verso i settori produttivi collegati (edilizia, chimica, metallurgia, legno, plastica..) che sull’intera economia (turismo, commercio, redditi, consumi..) e sono quelli a più alta intensità di manodopera. Abbiamo inoltre un elevato tasso di risparmio.
E’ possibile pensare ad un grande progetto paese che incentivi organismi pubblici possessori di capitali mobiliari ed immobiliari, istituzioni e fondazioni private, privati cittadini ad investire nella manutenzione con incentivi e crediti pluriennali commisurati agli incrementi di valore ed ai benefici nel tempo? Si può pensare di concentrare gli interventi su uno straordinario rilancio dell’edilizia di manutenzione e risanamento? Si può decidere seriamente e rigorosamente che chi trascura la manutenzione venga stimolato a farlo e chi persevera negli abusi rigorosamente punito non solo per illegalità, ma per i rischi che fa correre alle comunità? Ecco la svolta politica che servirebbe.