Mentre si appresta a dare il via a sconsiderate riaperture urbi et orbi delle attività economiche, secondo il principio -cinico e antiscientifico- del «rischio ragionato», il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, lunedì 26 aprile, presenterà in Parlamento il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che, secondo le sue dichiarazioni, «farà riassaporare il gusto del futuro al Paese».

Un piano scritto da una piccola task force di cosiddetti «esperti» (tutti maschi, ovviamente), il cui testo verrà conosciuto da deputati e senatori cinque giorni prima di essere inoltrato all’Unione Europea!

Un piano che disegnerà l’Italia del prossimo decennio senza che sia stato aperto alcun dibattito pubblico ampio e partecipativo per coinvolgere la parte attiva della società, a partire da quella che si è autonomamente adoperata con mutualismo e solidarietà per sostenere chi dalla pandemia è stato precipitato nella disperazione.

Un piano che continua a perseguire il feticismo della triade crescita-concorrenza-competizione e che ha come unico obiettivo gli interessi delle grandi imprese e delle lobby finanziarie, dai quali dovrebbe dipendere il benessere delle persone e della società.

Come altrimenti leggere i primi atti del Ministro alla Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, che, nell’arco di dieci giorni, ha dato il via libera alla perforazione di 20 nuovi pozzi di metano e petrolio in mare e su terraferma e ha consegnato una memoria al Consiglio di Stato contro il Tar di Lecce che ha disposto lo spegnimento dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto?

Come altrimenti interpretare lo sblocco da parte del Ministro delle Infrastruture, Enrico Giovannini (l’alfiere dello sviluppo sostenibile) di 82,7 miliardi per l’avvio di 57 nuove grandi opere, la gran parte inutili e dannose dal punto di vista ambientale, ma molto appetibili per gli interessi finanziari?

Il PNRR che il Governo Draghi presenterà prevede grandi investimenti, ma nessuna conversione sociale ed ecologica della società, solo una modernizzazione ’green’ e ’digital’ dell’attuale modello fondato sulla predazione della natura e su una sempre maggiore diseguaglianza. Con l’aggravante di destinare fondi diretti e indiretti all’industria bellica e all’acquisto di nuovi sistemi d’arma.

La ripresa che insegue è il canto delle sirene dell’economia del profitto, prima causa della crisi pandemica; la resilienza che auspica è la rassegnazione di tutte e tutti ad una vita di solitudine e precarietà.

Noi sappiamo, al contrario, che non vi sarà alcuna ripresa e resilienza senza garantire un reddito di base e un lavoro degno, la trasformazione ecologica della produzione e della società, beni comuni tutelati e sottratti al mercato, diritto alla casa, alla salute, alla formazione e alla sicurezza sociale garantiti per tutte e tutti. Uscendo finalmente dalla logica del «ristoro», concesso oggi a questa e domani a quella categoria, per prendersi cura della società nel suo insieme.

Ma perché questo avvenga, serve un cambio di paradigma e una ampia mobilitazione sociale per costruire un nuovo modello di convivenza: la società della cura, che sia cura di sé, delle altre e degli altri, dell’ambiente, del vivente, della casa comune e delle generazioni che verranno. Lunedì 26 aprile il Parlamento ratificherà quanto deciso dai pochi sui molti.

Fuori dal Parlamento, quel pomeriggio, la Società della cura porterà in piazza Montecitorio le ragioni dei molti per dire a chiare lettere «No a un Recovery Plan per riprodurre l’esistente, Sì a un Recovery PlanET per un’alternativa di società». Perché il futuro è troppo importante per consegnarlo agli indici di Borsa.