È ripartita l’emissione di titoli di Stato per Grecia e Portogallo. Le aste sono andate bene, seppur a tassi piuttosto elevati. Il ritorno al mercato per i titoli di paesi periferici viene letto come una conferma della fine della crisi. Il Sole 24 ore titolava in prima pagina, con una certa enfasi, «Lisbona fuori dalla crisi», Repubblica parlava di «riscossa». La ripresa però appare sempre molto sbilanciata sul versante finanziario, mentre non sono in ripresa consumi e investimenti, e ad avvantaggiarsene paiono in particolare le classi agiate. Il prezzo, però, consiste in un ulteriore indebitamento e nella trasformazione di debiti privati in pubblici. A ciò stanno conducendo l’assorbimento dei debiti spazzatura da parte di soggetti statali (basti pensare ai diversi progetti di bad bank nei vari paesi, compresa l’Italia) e, soprattutto, il processo globale teso ad aumentare la base monetaria. Quest’ultimo non deve trarre in inganno, in quanto l’immensa mole di denaro immesso nei meccanismi economici non è operazione senza contropartite (non si capisce quando e come il denaro facile verrà riassorbito), non produce neppure una crescita corrispondente, come dimostrano Usa e Giappone, infine rimanda sine die la chiusura del tradizionale rapporto tra debitore e creditore. Raddrizzare il crinale finanziario, nonostante la retorica, non migliora i conti pubblici. Viene colto con favore l’avanzo primario greco, cioè al netto degli interessi sul debito, senza evidenziare come sia il risultato della destrutturazione del welfare ellenico. Per non dire della tendenza a crescere dei debiti sovrani. In Grecia e Portogallo negli ultimi due anni il debito pubblico in rapporto al Pil è passato rispettivamente dal 142 al 172% e dal 119 al 128%. Complessivamente nell’Eurozona è cresciuto dal 90.7 al 92.6%, come ha certificato Eurostat recentemente. In Italia il debito è aumentato in termini percentuali sul Pil dal 123 al 132.6% e in termini assoluti da 1.989 miliardi di euro a 2.069. Insomma austerità, rigore e politiche di controriforma sociale non risolvono, ma addirittura peggiorano il grado di indebitamento pubblico.

Siamo sicuri che la crisi dei debiti sovrani non si ripresenterà solo in ragione di politiche monetarie espansive? Il famigerato spread si è ridotto e il problema sembra scomparso anche se in termini reali sta dilatandosi senza sosta. La ristrutturazione dei debiti sovrani prima o poi diventerà inevitabile. La questione sarà come e chi ne pagherà il prezzo. Se saranno le classi popolari oppure quei settori che, come tutte le ricerche dimostrano, non risentono della crisi, se non addirittura aumentano le loro ricchezze. Ma la ristrutturazione dei debiti pubblici rappresenta ancora un tabù, fino a quando una nuova precipitazione degli eventi renderà un default obbligato e a quel punto l’emergenza lo farà pagare alle fasce più deboli, quelle più facili da colpire, quelle più stanziali finanziariamente. Non pagare il debito diventa, invece, l’unica strada possibile per uscire diversamente da questa crisi. Continuare a ritenere questa soluzione impraticabile ci lega mani e piedi alla crisi del capitalismo.

Invece nel mondo privato è una prassi ristrutturare i propri debiti quando diventano insostenibili. Ultima richiesta in tal senso è stata avanzata dalla compagnia araba Etihad per entrare in Alitalia. Le banche italiane (anche in considerazione del fatto che sono nella proprietà) non gridano allo scandalo, semplicemente fanno i loro conti per capire se ne vale la pena. Perché inchiodarci a regole che persino il mercato, quando gli conviene, non reputa insuperabili? Meglio organizzarci per ristrutturare i debiti sovrani in maniera democratica e selettiva piuttosto che continuare a pagarne il conto in attesa che ciò avvenga comunque e alle consuete condizioni.