Se a confezionare con materiali di montaggio il suo sessantotto è Silvano Agosti, in “Ora e sempre Riprendiamoci la vita”, (a Locarno il 2 agosto) sarà certamente un film diverso dagli altri. Il suo umanesimo fa emergere frammenti di sensazioni e sentimenti, più che razionalizzazioni o discorsi ideologici per salvare, come suggerisce il titolo qualcosa che non deve essere disperso nella memoria storica.
Alcuni dei materiali del film prodotto da Agosti e dal Luce si conoscono bene, sono le manifestazioni, gli scontri e gli slogan, gli avvenimenti successivi e le date cruciali delle stragi di stato (ci sono voluti parecchi morti per fermare strategicamente un movimento che coinvolgeva tutta la società). Chi c’era le inquadrature non le ha viste dall’alto dei palazzi: oltre che per le strade è dentro le aule delle università occupate o davanti ai cancelli delle fabbriche che ha compiuto il lungo percorso di conoscenza dei problemi mai affrontati prima come questioni terzomondiste, operaie, femministe, geopolitiche, di potere e sopraffazione. Delle lunghissime assemblee che rappresentavano il nucleo del movimento non resta traccia perché alle cineprese era vietato entrare, bastavano già le falsità confezionate ogni giorno dai telegiornali.
Ma ne resta in qualche modo la testimonianza nel film di Agosti attraverso le parole di alcuni leader a cui pone domande un po’ spiazzanti che hanno a che fare con i sentimenti («cosa provavi nel profondo del tuo cuore?») conducendoli verso territori non troppo frequentati.
I volti che compaiono in Ora e sempre sono quelli dei protagonisti di quegli anni, ripresi già alcuni anni dopo così da guardare al passato a volte con un certo distacco come Pietrangeli, che scrisse una delle più apprezzate colonne sonore di quegli anni, come Nuto Revelli che rievoca il bene della libertà conquistato attraverso la Resistenza, o come Fuksas che guarda i filmati delle manifestazioni come fosse un film, ma sollecitato da Agosti confessa: «ci divertivamo un mondo, ci conoscevamo tutti ed eravamo drammaticamente felici» ed ancora immagina un futuro dove l’uomo possa fuggire dal lavoro e dal potere, dove abbia posto l’utopia. Il passato sembra essere ancora presente invece per Piperno (colpito da 56 capi di imputazione, da omicidio a intralcio al traffico e poi assolto) che paragona l’immensa energia sprigionata in quegli anni come un fiume sotterraneo che continua a scorrere e prima o poi potrebbe riemergere.
Le manifestazioni dei metalmeccanici della Fiat ci riportano bruscamente all’oggi, così come tanti passaggi chiave del film (abbiamo appena risentito in un programma tv rievocativo Marchionne affermare che le bandiere rosse davanti alla Fiat nuocevano all’immagine della ditta all’estero e soprattutto negli Stati Uniti («l’ho sempre ripetuto, ma non hanno voluto ascoltarmi»), le parole dei sindacalisti nel ’69 suonano un po’ fuori tempo («siamo pronti alla lotta lunga, inesorabile, fino alla vittoria»), così come la liberazione dalla schiavitù del lavoro. Sulle istanze di Potere Operaio Scalzone risponde: «che la lotta per lavorare meno fosse possibile e che questa fosse la rivoluzione». La liberazione dal lavoro allora centrale, oggi è di scarso successo, mentre allora aveva il significato di «riprendersi la vita», sogno evocato dalle scoperte della tecnologia. Inattuale come uno dei primi slogan «Diritto alla cultura, diritto alla vita». «Abbiamo perso. E per fortuna abbiamo perso», come dice Rostagno ucciso nell’88 a cui è dedicato il film.