«Riconoscere ai palestinesi diritto di eleggere ed essere eletti non fa di Israele una democrazia. Non risolve la questione democratica perché è la struttura stessa dello Stato, che si definisce ebraico e ha approvato decine di leggi discriminatorie su base religiosa, a negare tale natura. Israele considera noi palestinesi suoi cittadini “minaccia strategica” perché la nostra esistenza pone la necessità di una decolonizzazione dello Stato».

Così Haneen Zoabi, parlamentare palestinese alla Knesset dal 2009 al 2019, del partito progressista Balad, si è rivolta sabato 26 ottobre al pubblico del festival Logos all’ex Snia a Roma. Un evento organizzato da Udap, Unione democratica arabo-palestinese, a cui ha preso parte lo storico palestinese Wasim Dahmash. Con lei abbiamo parlato dell’attuale situazione in Israele e Palestina a margine dell’incontro.

Il solo voto non definisce una democrazia, ha giustamente detto. Perché parteciparvi?

È importante usare tutti i mezzi che la cittadinanza ci riconosce per sfidare quel regime politico. Buona parte dei palestinesi cittadini israeliani si astiene perché non intende riconoscere legittimità allo Stato di Israele. Li capisco. Ma credo che per difendere certi diritti, scuola, salute, servizi, sia necessario essere presenti e non lasciare che i palestinesi siano rappresentati da partiti sionisti che non ne fanno gli interessi. Non voglio che sia un partito sionista l’interlocutore della comunità palestinese, il 20% della popolazione, 1,5 milioni di persone. Il punto non è essere alla Knesset, ma con quale discorso politico ci si entra: per legittimare Israele o per rappresentare la conflittualità permanente? Se la nostra presenza nel parlamento israeliano fosse una foglia di fico, non avrebbero approvato una legge che permette sospensione ed espulsione di un parlamentare, come accaduto a me varie volte. Noi entriamo lì dentro portando il conflitto, non neutralizzandolo.

Haneen Zoabi

 

Parte della Lista araba unita, escluso Balad, ha dichiarato l’intenzione di dare appoggio esterno a Benny Gantz, leader di Blu e Bianco, contro un governo Netanyahu. Perché?

Per due ragioni. Da una parte il ruolo dell’Autorità nazionale palestinese di Ramallah: il presidente Abu Mazen ha spinto verso tale decisione anche finanziariamente. Non si tratta di strategia politica, ma di sopravvivenza. Abu Mazen ha bisogno dei negoziati, mai un mezzo ma un fine, per sopravvivere, per mantenere privilegi politici ed economici. La seconda ragione è che i leader palestinesi che hanno parlato di appoggio a Gantz, vogliono essere accettati da Israele, vogliono dipingersi come gli arabi buoni, i moderati, gli accettabili. Vogliono un ruolo, esattamente come lo vuole Abu Mazen, e rigettano la radicalità.

Fondamentale sarebbe una ricostituzione dell’unità politica palestinese, un ritorno dell’Olp in opposizione all’Anp?

Un ritorno dell’Olp smentirebbe la narrazione israeliana secondo cui la divisione politica dei palestinesi è stata archiviata con successo. Per noi palestinesi in Israele l’Olp non è importante come istituzione ma come soggetto morale, contro i tentativi israeliani di spogliarci della nostra identità palestinese. Al di là della sopravvivenza quotidiana, oggi non esiste più una visione condivisa. Per cosa stiamo lottando? Per uno Stato? Per la liberazione nazionale? La lotta oggi non ha una meta, la sofferenza di per sé non è un elemento identitario. Per questo l’Olp va ricreata, insieme a una visione politica che tenga conto dei diversi contesti in cui i palestinesi vivono e dei partiti che lì operano. Il paradigma di Oslo è fallito, un errore strategico: non è mai stato diretto alla liberazione, ma alla mera definizione di confini.

Quale dovrebbe essere il nuovo paradigma?

Il dibattito è partito quattro anni fa a Ramallah tra palestinesi di ogni enclave territoriale. In realtà non è nuovo, è originario degli anni ’60 e ’70. La partecipazione dei palestinesi del ’48 (di Israele, ndr) dà al discorso politico una dimensione nazionale e ha effetti concreti sulla base. Il deterioramento della capacità di mobilitazione è dovuto a questa assenza di dimensione nazionale e si traduce nell’appoggio a Gantz.

A fine settembre e la scorsa settimana migliaia di donne in tutta la Palestina storica hanno manifestato contro la violenza di genere e chiesto una nuova lotta di liberazione nazionale: lotta al patriarcato e al colonialismo. Come legge un simile manifesto?

Il movimento dietro la protesta, Tal’at, ha la nostra stessa visione politica. Molte delle ragazze che lo hanno lanciato sono politicamente cresciute dentro Balad, qui hanno sviluppato la loro coscienza politica e la loro capacità di critica. Sono radicali e in grado di agitare il discorso politico che non attira più i giovani. Anche il mio partito ha smesso di essere attraente: i giovani percepiscono un gap tra i valori politici del partito e la sua struttura istituzionale. Dobbiamo rinnovarci sul piano della pratica politica. Un movimento come Tal’at, seppur critico, difende i nostri valori politici attraverso la sua radicalità.

Quanto incidono nella questione palestinese le mobilitazioni nel mondo arabo, dall’Algeria al Libano all’Iraq?

Moltissimo. La nostra identità politica e la nostra attitudine riflettono quanto accade nel mondo arabo. La Palestina resta al centro delle lotte anticoloniali e per la democrazia nella regione. Lo si è visto nel 2010-2011 con le primavere arabe e con la guerra civile in Siria. Oggi i palestinesi sono considerati irrilevanti non perché lo siano ma perché sono deboli. Questo è il ruolo di una leadership: dare forza alle persone, non lasciarle da sole con i propri sogni.