L’occasione per tornare sul tema del rapporto tra semiotica e videogiochi è offerto dal nuovo volume – il ventitreesimo – della collana Ludologica. Videogames d’autore di Unicopli a cura di Matteo Bittanti e Gianni Canova: Mondi paralleli. Ripensare l’interattività nei videogiochi. L’autore, Enzo D’Armenio, è dottorando in Semiotica presso l’Università di Bologna e ha collaborato con EC – la Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici -, con The Games Machine, con Players e con Marla – Cinema alla fine delle immagini oltre che con altri magazine online.

D’Armenio con questo suo studio entra consapevolmente nella dicotomia tra semiologi e ludologi e nella parallela diatriba che ha infiammato le schiere degli studiosi del medium videoludico tra coloro che sostengono la fondamentale importanza dell’elemento narrativo all’interno del videogioco e di coloro che tale importanza la negano nel modo più assoluto. Ovviamente, data la sua appartenenza all’ambito semiotico, D’Armenio sostiene che l’elemento narrativo sia costitutivo della testualità videoludica, ma si confronta con i primi due – seminali – volumi di Agata Meneghelli (Dentro lo schermo. Immersione e interattività nei god games e Il risveglio dei sensi. Verso un’esperienza di gioco corporeo, entrambi pubblicati da Unicopli), criticando la centralità dell’elemento “interattività” per sostituirlo con quello della spazialità e del movimento. Concetti che secondo l’autore possono anche aiutare a superare la dicotomia semiotica/ludologia.

D’Armenio mette alla prova le sue ipotesi su un ventaglio di giochi – Tetris, Street Fighter IV, Halo: Combat Evolved, Bioshock Infinite, Ico e Shadow of the Colossus, Red Dead Redemption, Resident Evil 2, Deus Ex: Human Revolution, Metal Gear Solid, ma soprattutto i due Portal – per mostrare praticamente l’analisi su titoli specifici.

In realtà l’analisi risolve alcuni problemi ma ne apre altri. La critica al concetto di interattività come centrale per definire lo specifico videoludico è stata avanzata un decennio fa all’interno dell’analisi non semiotica di Steven Poole Trigger Happy (Arcade Publishing): la motivazione – ripresa da D’Armenio – è che l’interattività offerta da un videogioco è estremamente più limitata e “guidata” autorialmente rispetto all’interattività offerta dal mondo reale. Il videogiocatore non ha mai a disposizione una “libera scelta” sull’azione da far compiere al proprio alter ego virtuale e le sue possibilità si riducono ad un più o meno stretto ventaglio deciso dallo sviluppatore. Al contrario il giocatore deve muovere nello spazio virtuale all’interno del videogioco una qualche forma di alter ego, o comunque deve far compiere azioni e spostamenti ad elementi all’interno di questo spazio. D’Armenio non concede spazio particolare al movimento del giocatore stesso (a differenza di Meneghelli che in Il risveglio dei sensi focalizza l’attenzione esattamente sui nuovi controller che concedono/richiedono maggiore libertà di movimento al giocatore): è la possibilità di muovere un corrispettivo all’interno del videogioco che crea lo spazio di una narrazione. E fondamentalmente è un peccato che D’Armenio non abbia considerato il testo di Michael Nitsche Video Game Spaces (MIT Press, 2008) che anticipa tale argomentazione con il pregio di contestualizzarla meglio. Per Nitsche infatti è vero che la possibilità di navigare spazi tridimensionali crea un movimento esplorativo che necessariamente è anche una forma di narrazione: il racconto di quella specifica esplorazione che si scopre diversa da giocatore a giocatore, anche all’interno di uno spazio identico, proprio perché ogni giocatore sceglie approcci e percorsi diversi. Ma per Nitsche ciò si limita appunto agli spazi tridimensionali che amplificano la realtà virtuale del videogioco creando effettive occasioni di esplorazione. Per Nitsche ad esempio non può considerarsi “esplorazione” il processo di “pixel hunting” (cioè della ricerca degli elementi utili all’interazione) in una classica avventura grafica, o il calcolo e la ricerca delle caselle libere in Campo minato/Prato fiorito. Ma se in effetti in videogiochi legati ad esempio alla risoluzione di puzzle, la ricerca di un soggiacente testo narrativo rischia di diventare operazione sterile e fine a se stessa, ciò non significa che il libro di D’Armenio sia di scarso interesse.

In particolare l’approccio semiotico al videogioco, grazie anche alle categorie di cui D’Armenio mostra concretamente l’uso in modo magistrale con titoli come Ico/Shadow of the Colossus o con i due Portal, potrebbe essere utilizzato per creare una tassonomia che sia indipendente da quella meramente merceologica che utilizza categorie povere e logore come “action adventure” o “first person shooter”. Uno dei pochi tentativi di affrancarsi dalle definizioni offerte dalle agenzie di PR che si occupano di videogiochi, pedissequamente riprese da siti e riviste specializzato è stato quello di Mark J. P. Wolf (studioso presente all’interno dell’International Advisory Board della collana Ludologica) nel saggio all’interno del volume da lui curato The Medium of the Video Game (University of Texas Press, 2002) dove tenta di offrire una serie di categorie basate esattamente sul tipo di interattività richiesto. Il fatto che tale tassonomia non sia però stata ripresa dalla comunità scientifica giustifica, almeno in parte, il ripensamento di D’Armenio sull’interattività come categoria fondante il medium. E tuttavia deve ancora arrivare chi possa essere in grado, utilizzando i vari contributi portati dagli studiosi di varie discipline, di creare tale tassonomia scientificamente fondata ed utilizzabile al di fuori di meri comunicati stampa per approfondire e sistematizzare la conoscenza del medium.