La mobilità umana è una questione globale e una dinamica di diritto che coinvolge oltre 270 milioni di persone (Word Migration Report 2020) che si spostano tra i nord e sud del mondo intersecando flussi e direzioni. Il fenomeno migratorio, che è un fenomeno strutturale e non congiunturale, è un evento permanente che riguarda il pianeta intero. Un percorso migratorio può durare anni e migliaia di chilometri, attraversare decine di frontiere, scontrarsi con autorità, altri viaggiatori e viaggiatrici, trafficanti di esseri umani. L’ultimo tratto di questo percorso può coincidere con il momento in cui il migrante diventa visibile, ovvero quando – e se, diventa un naufrago. Naufrago dunque esisto, sembra essere il cogito per diventare detentori del diritto di soccorso. È in questo punto che nasce lo scontro tra diritto nazionale e internazionale, diritto della terra e diritto del mare. All’interno della pratica del soccorso civile in mare si intessono relazioni ed esperienze condivise mentre si è dentro un cantiere di frontiere in costruzione. Essere così testimoni della violenza intrinseca dei dispositivi di potere esercitata sugli esseri umani mentre è in corso il tentativo di trasformare il mare in una frontiera. È una guerra dichiarata nella versione sovranista della storia, sotterranea nella versione liberaldemocratica. Siamo immersi in un sistema che sfoggia il mito cosmopolita mentre produce a livello legislativo clandestinità.

Oggi il terreno umanitario diventa uno spazio di conflitto nel punto in cui si innalza la frontiera e la pratica del soccorso civile in mare è sempre più criminalizzata. Avviare pratiche altre di decostruzione delle frontiere – visibili e non – significa destrutturare il nuovo paradigma e trasformarsi nel centro del mirino, ovvero nei nemici e bersagli della guerra sotterranea. Questa guerra si è insidiata nelle venature governative contradditorie che percorrono linee più che altro di facciata. Infatti, dal punto di vista pubblico, la modifica ai Decreti Salvini sembra andare in direzione contraria a quella che era una politica di chiusura. Queste modifiche, però, non trovano effettivo riscontro nell’attività amministrativa che sembra essere fatta invece di ostracismo e boicottaggio del soccorso in mare. Nel caso di Mediterranea, la Mare Jonio è sottoposta a una diffida da parte delle autorità italiane per operare soccorso in mare in quanto definito “attività sistematica di soccorso”. Ricordiamo che la Mare Jonio è un mezzo della Marina Mercantile Italiana e dal punto di vista normativo e delle convenzioni internazionali, detiene il diritto e il dovere di soccorrere. Un dovere e un diritto che in realtà appartiene a tuttǝ, come ricorda la Convenzione di Amburgo, sottoscritta dall’Italia nel 1985, la quale afferma che il soccorso in mare attiene a chiunque si trovi in mare. L’accusa di farlo in maniera sistematica equivale a quantificare un’emergenza che per definizione termina nel momento in cui termina il soccorso e non un numero. In risposta alla diffida, la Mare Jonio si certifica come nave Search and Rescue, quindi un nuovo provvedimento della Capitaneria di Porto vieta l’imbarco del team di soccorso e sanitario: sono l’autorità portuale e l’autorità marittima a poter decidere quali imbarchi risultano funzionali. Stiamo assistendo sempre di più a meccanismi di costruzione di una frontiera liquida che sostanzialmente cerca di interrare il mare e si interseca con i confini della sovranità, con lo scontro tra la sovranità statuale sulla sovranità internazionale, che per definizione è un prodotto multipolare derivante dalla negoziazione alle Nazioni Unite di un contesto globale multipolare.

Il problema delle esternalizzazioni delle frontiere è un fallimento, non solo umano, che ha portato sempre di più allo spostamento geografico e gestionale della frontiera. Nel caso italiano, ad esempio, la chiusura dei porti, quindi la diminuzione degli arrivi, ha significato più morti in mare e più deportazioni nei paesi di partenza. Questa è la vera emergenza: non i quantitativi degli arrivi bensì le morti. Di fatto l’approccio emergenziale alla questione non è giustificabile dal momento in cui la presenza non rappresenta un’emergenza. A livello di arrivi si tratta di numeri molto più bassi rispetto ad altri momenti storici, piuttosto andrebbe considerato il numero delle persone all’anno che emigrano dall’Italia.

Il processo di esternalizzazione della frontiera inoltre lavora su un marketing politico elettorale per cui la migrazione diventa il nemico esterno e comporta la dotazione dell’attività del comparto politico militare industriale. Frontiera significa infatti: armi, mezzi, eserciti, controlli, know how militare, forniture, ovvero un settore che rappresenta una delle principali voci del business globale. Un’ulteriore variabile è legata alla questione energetica, alle risorse come al petrolio nel caso della Libia. Così si accumulano tensioni su chi agisce all’interno del tentativo di costruzione della frontiera liquida fino ad arrivare alla situazione che stiamo fronteggiando in cui le strutture liquide spostano le rotte.

La rotta balcanica è teatro di violenze inaudite, lì dove anche Frontex viene accusata di complicità nei respingimenti di migranti e sospettata di violazione di diritti. Il Mediterraneo rimane, per la sua collocazione geografica e per la sua importanza paradigmatica, un punto centrale di intervento. Il controllo delle frontiere ha portato allo spostamento verso l’Atlantico ma anche il cambiamento climatico ha la sua influenza sulle rotte. Diventa sempre più complesso lavorare intorno le previsioni meteo, anticipare fenomeni difficili da affrontare come gli uragani. Il climate change non fa certo da corollario, le persone si spostano per i problemi legati all’acqua, alla terra, per la desertificazione.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno che chiaramente muta in continuazione e accettare la sfida migratoria significa avere una visione progettuale e a volte sperimentale. In questo contesto si inserisce la Mare Jonio 2, una nave dalle dimensioni e dalle possibilità più ampie rispetto a tutto quello conosciuto finora, che si prepara alla sua prima missione per aprile 2021. A livello strutturale, infatti, è un progetto ambizioso che predispone di ampie opzioni, come quella di costruire una sezione ospedaliera navigante. La Mare Jonio 2 si costruisce su un assetto che ancora non esiste raccogliendo una sfida anche rispetto le rigidità normative che riguardano le navi da soccorso. Non è un caso che la piattaforma ospedaliera assuma un ruolo centrale insieme al fatto che Vanessa Guidi (medico-chirurgo) sia diventata da coordinatrice sanitaria a Presidente di Mediterranea. Non si tratta di ricoprire in maniera formale il ruolo di rappresentanza bensì, in termini operativi e partecipativi, si vuole sottolineare l’importanza nevralgica della cura delle persone fino all’estensione del concetto medico.

Il mare rimane il luogo dove è possibile costruire una pratica, risignificare le parole e le azioni, impadronendosi di questa capacità di leggere la complessità delle cose pur restando ancorati a quelle semplici. Leggere la complessità significa fuggire la possibilità di standardizzare le persone, le esperienze, i fenomeni, le storie, le voci, per accorgersi della diversità. Bisogna fare i passi più lunghi della gamba per non smettere di muoversi e di agire, mettere al centro la cura e il benessere della persona per salvarsi dall’indifferenza e dall’annichilimento dell’umanità. L’intervento in mare non dovrebbe esistere, bisogna ricordarsi che è lì per colmare un vuoto che, ripetiamo, non dovrebbe esistere.