Sassari, il passato e il presente di una città che sembra aver perso ogni orizzonte futuro. Ne parliamo con lo scrittore Salvatore Mannuzzu, autore Einaudi, dieci romanzi quasi tutti ambientati a Sassari, un luogo di cui Mannuzzu conosce le pieghe più riposte.

Sassari ha vissuto il passaggio alla modernità secondo un suo modello. Quale?

Nella seconda metà dell’Ottocento Sassari ha saputo superare l’impasse della sua tradizionale economia agraria con l’innesto di modi di produzione industriali e l’egemonia di nuove alleanze: con la comparsa d’un nuovo ceto dirigente, segnato da quella provenienza e insieme da una forte caratura intellettuale. Una tale laboriosa frittata, cucinata in non pochi anni del diciannovesimo secolo, ha però comportato la rottura – dolorosa e non inevitabile – di uova molto grosse. A uscire disfatta è stata la città contadina. Molti oliveti sono stati spiantati, e gli orti, tutti, sono stati praticamente cancellati, per far posto ad anonimi quartieri urbani, a squallide borgate – in seguito a qualche seconda casa d’un ipotetico stile mediterraneo (“smeraldino”). E venendo ai giorni nostri, o quasi, delle villette liberty e delle successive villette déco, edificate nei primi decenni del Novecento dagli estri di una piccola borghesia laboriosa, in viali di antiche periferie, cosa rimane? I figli, o i figli dei figli, non poche volte ci hanno fatto passare sopra le ruspe…

E sulle spiagge a nord della città hanno spalmato, tra gli anni Sessanta e Ottanta, un’enorme raffineria petrolchimica…

Sì, ai margini del golfo dell’Asinara, in una grande spiaggia bianca che s’era chiamata Marinella. Rimangono adesso i reliquati degli stabilimenti – laggiù: quasi dei fantasmi; e residua – offesa, dispersa – una cintura operaia cresciuta, al tempo della leggenda petrolchimica, tutt’altro che estranea alla città, anzi mischiata al suo più vero sale. Mentre quei capitalisti, che pure della città avevano posseduto rappresentanti politici, giornali e burocrazie, sono letteralmente spariti, senza lasciare tracce. Sassari è diventata un agglomerato tutto terziario – ma terziario rispetto a che cosa? Diciamo un agglomerato di stipendi pubblici (oltre che di disoccupati), dove negozi e botteghe sono ridotti allo stremo prima dalla grande distribuzione poi dalla ferocia della crisi economica; e con essi quel po’ di vita superstite in vecchie strade e vicoli. Un agglomerato tutto terziario dove per un non breve periodo di tempo l’unico gioco praticato è stato quello della speculazione immobiliare: far carne di porco del lascito territoriale e buona notte. Gioco divenuto sempre più ansimante, poi anche democraticamente contrastato: fino al buco nero della attuale crisi.

Oggi da che cosa si può ripartire?

Uno dei nuclei strategici, non solo urbanistici, rimane la città antica, il centro storico come diciamo ora. Su di esso – che è un bene di tutti – va appoggiata una importante leva, anche economica: in termini di riuso, rivitalizzazione commerciale, regola del traffico; è proprio vero che l’anima ha sempre strettissimi nessi col corpo. Così anche quello delle campagne sassaresi resta un grosso nodo non sciolto: l’agro, lo chiamiamo, con la questione aperta delle sue borgate, del rispetto delle ragioni della natura, del riparo dagli sconvolgimenti antropici. Bisogna insistere, per trovare una strada, sulla ricchezza umana dei singoli e delle aggregazioni sociali. Di queste Sassari è sempre stata dotata, a cominciare dalle antiche corporazioni dei mestieri, i gremi; che oggi possono trovare eredi in non poche associazioni con scopi culturali, politici o ecologisti. Credo che esse siano segni di non sopita vitalità, prenotazioni non vane di avvenire: meritano fiducia.

Basta per cercare una via d’uscita restare ai confini municipali?

Se ci si ferma alla mera dimensione municipale, o poco più, si va a perdere. La misura grettamente municipale non è mai stata la nostra, tanto meno può esserlo oggi. Sassari – per storia e memoria, per suo comprovato destino – si salva solo se riesce a rappresentare un territorio assai più vasto di quello dei suoi confini comunali. Se torna a essere un cuore pulsante fra i suoi due mari, di settentrione e d’occidente; se diventa punto di riferimento di zone più interne. Se riesce a mostrarsi parte della grande anima sarda: a vivere anche di essa, a crescere anche con essa. Ma neanche la dimensione regionale è sufficiente. Sarebbe illusorio ritenere che la partita si concluda in ambiti regionali, quando gli stessi limiti nazionali ora le risultano stretti. Non c’è luogo sul pianeta che possa davvero esistere se non è capace di instaurare la sua vertenza col mondo: se non prova a contribuire alle scelte e alle sorti del mondo.

Concludiamo in questo modo?

Mi lasci aggiungere un’ultima cosa. Un poeta del nostro antico Olimpo municipale dice d’un suo collega scrittore che, in punto di morte, pa Sassari ha invucaddu cariddài – per Sassari ha invocato carità. La cariddài ci manca ancora: e senza, non c’è verità né speranza. Solo una superstite cariddài può dare senso alla nostra condizione, qui e altrove. In una vecchia gobbura (poesia popolare) per voce maschile e trimpanu (tamburo) noi sassaresi cantavamo: Noi andemmu terra terra che (come) li cristiani vivi. Non c’è altro andare che questo, sulla bassa superficie della terra, a tentoni, per qualsiasi drappello umano che si inoltri dentro la vita e la storia: dentro la realtà incerta e faticosa della propria vita, dentro la gremita e buia realtà della storia – in cui è arduo trovare un varco. E dunque il nostro andare ha diritto alla giusta pietà.

Salvatore Mannuzzu è nato nel 1930. È stato magistrato e, per tre legislature, deputato indipendente nelle liste del Pci. Ha sempre pubblicato con Einaudi. Tra i suoi titoli, Procedura (Premio Viareggio e finalista Premio Strega), Corpus, Le ceneri di Montiferro, La figlia perduta, Un morso di formica, Il terzo suono, Il catalogo, Alice, Le fate dell’inverno e Snuff o l’arte di morire. È fra gli autori dell’antologia, appena arrivata nelle librerie, Sei per la Sardegna (Einaudi, con Francesco Abate, Alessandro De Roma, Marcello Fois, Michela Murgia e Paola Soriga), i cui proventi saranno destinati alla comunità di Bitti, un paese gravemente danneggiato dalla recente alluvione.