C’è una lettura nella storia critica della tradizione poetica americana, cui pochi, nel tempo, hanno dato rilievo, ed è quella che riconosce in R. W. Emerson e nel suo pensiero trascendentalista non lo slancio positivo verso l’‘invenzione’ dell’uomo e del poeta americano, libero dai paludamenti europei, ma l’incauto seduttore di menti originali. In questo senso, Yvor Winters è stato un oppositore forte dell’entusiasmo adamitico di Emerson. L’illimitata «fiducia» che egli seppe iniettare, anche positivamente, nelle vene ottocentesche, lungo linee attinte dai filosofi tedeschi, i quali «attribuivano allo spirito dell’uomo l’onnipotenza che era appartenuta a Dio», riasserendo così – scrive Leonarda Vaiana – la «supremazia della mente sulla materia», finì, infatti, col fuorviare molti giovani nella realizzazione dei propri sogni di vita come pure del fare poetico. Tanto più che nell’incoraggiamento di Emerson si includeva la missione a loro affidata di contribuire all’idea della nazione come nazione esemplare (guida del mondo), progetto che, fa intendere George Santayana, risultò poi pericoloso nel trasferire l’ideologia del Manifest Destiny anche fuori dei confini nazionali. E ciò, in effetti, avvenne con maggiore consapevolezza – dopo la guerra con la Spagna per Cuba e la mano allungata su Filippine e Hawaii (1898) –, a partire dal programma già imperialista di Theodore Roosevelt, implicito, per esempio, nel Roosevelt Corollary e gli interessi nell’America del Sud (1904).
Whitman non fu travolto
Pur nei suoi eccessi cosmici, Walt Whitman, degno primo epigone della figura del Poeta ritratta da Emerson nel saggio eponimo (1844), fu l’unico che – strano a constatarsi! – non fu definitivamente travolto dall’afflato della propria sicumera onnicomprensiva. Nonostante la sua megalomania, secondo Santayana (che, per comodità, dimentica le ambiguità e gli scetticismi di Melville, Poe, Thoreau e Hawthorne), Whitman tenne i piedi per terra (nel suo caso: su tutta l’America!), controllando i rischi di possibili deragliamenti. Ma giunti al Novecento, quell’egotismo emersoniano, intravisibile persino nello slogan di Woodrow Wilson a favore dell’intervento nella guerra in Europa («Salviamo il mondo per la Democrazia»), iniziò a mostrare, sul piano dello sforzo artistico, tragici pseudo-fallimenti (Hart Crane) o estremismi di self-reliance. La tradizione signorile nella filosofia americana e altri saggi di George Santayana, una raccolta confezionata postuma nel 1967, ora in italiano con testo a fronte, prefazione di Martin A. Coleman e cura, con ottima introduzione, di Leonarda Vaiana (Bompiani «Il Pensiero Occidentale», pp. 710, euro 35,00), tocca con animo critico (ma talora sfuggente, se non contraddittorio) questa tematica, volutamente osservata da «straniero», alla maniera di Alex de Tocqueville.
California, 1911
Letta a Berkeley, in California, nel 1911, quindi prima che, a dispetto dei danni temibili, si iniziasse a creare il grande monumento lirico e epico della poesia americana che oggi fortunatamente abbiamo (assieme alle sue tragedie: i numerosi suicidi e le vere o presunte follie), la conferenza che dà il titolo al volume offre un’analisi del germe del problema, come pure – e inconsapevolmente allora – la verità profetica sortita dalla posizione anti-trascendentalista, un intuito che fece maturare in Santayana il suo personale distacco da quella che egli battezzava «Genteel Tradition».
Perché dalla predicazione di Emerson – «spirito raro e bello» che possedeva il «segreto dell’universo» (la Oversoul) ma la «realtà gli sfuggiva» – era discesa anche un’altra linea di azione che formava a Boston un gruppo elitario di intellettuali e poeti, una gentry (le dinastie ‘aristocratiche’ fondatrici, fra cui i Lowell e gli Eliot) che si trincerava sulla roccia di Harvard e quella di Plymouth (il luogo d’approdo dei primi pellegrini del Mayflower) e sull’idea di Emerson (ereditata dai Puritani) dell’«eccezionalità» americana. Da questo gruppo – i cosiddetti Bramini – seguì il dettato etico e letterario della «tradizione signorile», detentrice per diversi decenni di un dominio sul pensiero comune che, partendo dalla visione di Emerson («un paese incantato di pensieri e fantasie», dice Santayana), durante la Gilded Age e l’Era Progressista (1870-1920) sostenne un discorso frenante ogni scollamento da codici vittoriani, avulso dalla nuova realtà americana, quella dell’iniziativa individualistica, dell’umorismo della frontiera (Mark Twain) e del realismo proveniente anche dalla corsa al West. La loro messe letteraria fu modesta, e dalla modestia non va escluso il piccolo canone poetico dello stesso Santayana, il quale nella «tradizione signorile» bostoniana si era formato. Nel 1911, questo suo conio per un movimento letterario «debole» e conservatore era, al fondo, ironico e sprezzante.
George Santayana (1863-1952), spagnolo di nascita e cittadinanza, espatriò negli Stati Uniti a nove anni, studiò a Harvard e ne divenne presto professore di Filosofia e, nello specifico, di Estetica (la sua opera più importante è il non facile The Sense of Beauty del 1896). Fece in tempo a essere maestro ammirato di Wallace Stevens e T. S. Eliot, prima di dimettersi e ritornare in Europa nel 1911, spiegando le ragioni del suo gesto nella conferenza californiana, in cui si distanziava con critica dura dai vaghi e ammuffiti canoni poetici di «verità e bellezza», e dall’utopia della self-reliance di Emerson (da cui, fra l’altro, tanto per indicarne il grande influsso, il nome del Reliance Building del 1895, uno dei primi grattacieli di Chicago), per prendere atto della necessità di un giro di timone a seguito dell’intervento di nuove realtà (poco genteel) con cui venire a patti: industrialismo, capitalismo, urbanizzazione, immigrazione, etnie, i territori a Ovest che nascevano, o erano nati, spesso su altri fondamenti. In sostanza, secondo Santayana, nell’esaurirsi dello «spirito», nella vita americana si era approfondita una grande contraddizione, un baratro tra una mente di pochi che si riteneva guida e modello, e una volontà dei più che spingeva verso altri obiettivi. È la dicotomia congenita in America tra idealismo e materialismo (o la realtà di volta in volta effettiva).
Tre figure esemplari
Quali, i rimedi a tale aggravata situazione? Santayana li indica nell’esame di tre figure esemplari che seppero staccarsi, in parte o del tutto, dall’ingannevole ottimismo emersoniano: Walt Whitman (poeta bardico bandito dall’élite per via del suo versificare «barbaro») e i due fratelli James: William, il filosofo, che reagì al vuoto spirituale in atto con il Pragmatismo, e Henry, il narratore ed esule, che adottò nell’analisi del suo paese una distanza europea. Molti furono, non a caso, gli espatriati in questi decenni, da Whistler a Eliot, etc. Sul piano della formazione e creazione artistica l’America, arenatasi sulla gentility moralistica e sul materialismo rampante, non aveva più nulla da offrire ai suoi futuri talenti. Lo dice anche Santayana in La poesia barbarica (1900), verso la fine del volume, paragonando il presente alle lezioni del passato: «troviamo i nostri poeti contemporanei incapaci di elevata saggezza, incapaci di qualsiasi rappresentazione immaginativa della vita umana e del suo significato», nessuna «visione della bellezza», e altro. E ne indica anche le ragioni, molto vere e interessanti ai fini di quanto seguirà, e fra queste una constatazione originale e sovvertitrice in ambito protestante: «Dobbiamo ricordare che l’immaginazione della nostra razza è stata soggetta a una doppia disciplina. Si è formata in parte alla scuola della letteratura classica e in parte alla scuola della pietà cristiana. Questa duplice ispirazione, questa contraddizione fra i due metodi di razionalizzazione del mondo adottati, è stata la fonte principale di quella incoerenza e di quella vaghezza e imperfezione tipicamente romantiche, che caratterizzano ampiamente i prodotti dell’arte moderna. Un uomo non può servire due maestri». Il Novecento cercherà di rimediare alla falla. E farà le sue scelte vincenti, nonostante gli abusi della self-reliance.