L’editoriale di Norma Rangeri (il manifesto del 5 ottobre) merita una riflessione a partire dalle “parole” che definiscono il campo politico: la destra e la sinistra nel nuovo secolo. Rangeri parte dalla constatazione di una sinistra da troppi anni terribilmente divisa, litigiosa, autodistruttiva, e auspica la nascita di una «sinistra dei diritti». Soprattutto, mette il dito sul «furto di parole» che contano come «libertà» e «cambiamento», rubate da Berlusconi, la prima, da Renzi la seconda. Ne aggiungerei un’altra rubata dal Pd di Renzi, complice l’ex-Cavaliere: la sinistra.

Ripartirei da qui: dal senso delle parole che nel campo della politica, come lo definiva Bourdieu, contano come pietre, almeno quanto in un campionato di calcio contano i gol. Per questo vale lo sforzo di provare a storicizzare la metamorfosi del linguaggio e delle categorie politiche dell’ultimo trentennio.

C’era una volta una netta distinzione tra i militanti e gli elettori della destra e della sinistra. I primi si potevano identificare facilmente con i conservatori, i secondi con i progressisti. Essere conservatori significava difendere lo status quo, l’ordine sociale e gerarchico esistente, credere in determinati valori quali religione-patria-famiglia, e quindi battersi per la conservazione delle forme sociali, economiche e politiche ereditate, a partire dalla sacralità della proprietà privata. Essere progressisti significava volere il cambiamento dell’ordine sociale, mettere in discussione i privilegi, le forme alienanti della religione, le superstizioni e le forme arcaiche delle culture locali, promuovere il progresso e la modernizzazione della società, della cultura, delle istituzioni.

Una visione positivistica

Cambiamento-Progresso-Modernizzazione: queste sono state per più di un secolo le parole chiave delle forze politiche della Sinistra. Costituivano i pilastri di una visione positivistica della storia umana, che aveva iscritto nel suo codice genetico un lieto fine: la liberazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. L’umanità, grazie al progresso tecnologico, si sarebbe liberata dalla schiavitù del lavoro legata al bisogno, così come era avvenuto per il lavoro dei servi e degli schiavi nelle società premoderne. Questo scenario, in cui si combinavano e marciavano insieme le conquiste di nuovi diritti per i lavoratori e per le fasce più deboli della società (welfare State), la crescita economica ed il progresso tecnologico si è spezzato, prima sul piano culturale e poi politico, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso. Si è verificata una “catastrofe”, nell’accezione di René Thom, vale a dire una biforcazione tra forze che si intrecciavano lungo una linea ascendente e che adesso procedono per linee divergenti.

Un primo elemento forte di rottura, all’interno della sinistra europea, è nato con la questione delle centrali nucleari: per la sinistra “storica” rappresentavano una risposta progressista al fabbisogno di energia per lo sviluppo economico; per la sinistra “alternativa” – movimenti pacifisti, ambientalisti, ecc. – le centrali nucleari erano solo il bisogno drogato di un modello di sviluppo energivoro e pericoloso che andava radicalmente cambiato. Quasi contemporaneamente nasceva, nell’area della sinistra “alternativa”, una opposizione all’espansione dell’agricoltura industriale (fino alla contestazione dei primi esperimenti di Ogm), agli ipermercati e alla cementificazione indiscriminata, per finire con la contestazione di alcune Grandi Opere che si andavano progettando. Nasceva un’idea di “locale” come opposizione ai processi di globalizzazione capitalistica, di tradizioni e identità da recuperare (una volta appannaggio della destra storica), di una alternativa alla stessa categoria dello “sviluppo”, come fine dell’agire sociale. In breve: l’equazione progresso/tecnologia/modernizzazione/progresso dell’umanità, era saltata.

Nel corso degli anni ’90 e del primo decennio del nuovo secolo questa spaccatura all’interno della sinistra politica è diventata sempre più profonda, mentre sul campo avverso nasceva una nuova destra neoliberista che si appropriava delle parole “cambiamento”, “progresso”, e persino “rivoluzione” (nei confronti dello Stato burocratico e dei lacci e lacciuoli prodotti dai diritti dei lavoratori). Scioccata dalla vergognosa e rovinosa caduta dei paesi “socialisti”, la sinistra storica tentava di inseguire i processi di modernizzazione capitalistica diventando più realista del re. Le leggi di mercato e la crescita economica, senza se e senza ma, erano diventate le nuove stelle polari, il terreno su cui sfidare la nuova destra.

Questi veloci cambiamenti nel linguaggio come nelle categorie politiche, qui sinteticamente riassunti, hanno portato alla formazione di un Pensiero Unico da cui è difficile uscirne. Allo stesso tempo, il modo di produzione capitalistico si è profondamente trasformato, sia attraverso una torsione finanziaria (il Finanzcapitalismo, secondo la felice definizione di Luciano Gallino), sia attraverso l’adozione di tecnologie sempre più invasive e distruttive rispetto all’ecosistema.

Se tutto questo è vero, allora è facile capire perché oggi, soprattutto tra le nuove generazioni, destra e sinistra sono parole vuote, o se volete contenitori usa e getta. Parlare di “nuovo soggetto politico della sinistra” è un’espressione che parla solo agli addetti ai lavori o alla generazione che ha vissuto le lotte degli anni ’60 e ’70. Intanto, questa ossessione del “nuovo”, come valore in sé, fa parte della stessa ideologia del sistema in cui viviamo e in cui ogni giorno la pubblicità ci mostra un nuovo prodotto. Così come “cambiamento”, la parola più usata da Renzi (e una volta dalle forze della sinistra) è una parola priva di senso. Il mondo cambia comunque perché la vita è divenire di per sé. Bisognerebbe eliminarla dal vocabolario politico o specificare quale cambiamento si vuole produrre.

Ridotti a individui

Piuttosto ci sarebbe da domandarsi come è possibile che un sistema economico-politico fallimentare, che crea povertà crescenti nell’era dell’abbondanza delle merci e delle tecnologie, che crea insicurezza economica e sociale nella maggioranza della popolazione, non venga rovesciato. Come possiamo ricreare un legame sociale e culturale tra milioni di persone, ridotte a individui, che lottano o resistono solo rispetto a una specifica situazione (condizioni di precarietà, licenziamenti, ecc.), ma sono incapaci di mettersi insieme, di essere solidali con chi vive nelle stesse condizioni.

Un esempio tra i tanti: la chiusura della Fiat di Termini Imerese, con cinquemila famiglie sul lastrico, non ha suscitato la solidarietà della società siciliana, a partire dai circa ottomila precari (Lsu, Lpu) che ogni tanto scendono in piazza per i fatti loro. Le parole della Thatcher , alla fine del secolo scorso, suonano come una funesta profezia: «La società non esiste, esistono solo gli individui».

Gramsci scriveva dal carcere che il Mezzogiorno appare come una «grande disgregazione sociale», oggi è tutta l’Italia a trovarsi in questa condizione. Per questo penso che non esista una via di uscita solo pensando al “soggetto politico”, che poi dovrà confrontarsi con un mercato elettorale dove impera ormai un duopolio, in Italia come negli Usa, dove il controllo dei mass media è determinante. Abbiamo invece urgente bisogno di una grande tessitura sociale e culturale e di parole in grado di costruire la visione del futuro desiderabile e credibile. A questo impegno siamo chiamati in tanti, anche chi si è allontanato dalla politica.