Si chiama «Riot» (sommossa), per via della ribellione che cominciò con Genova, ormai un secolo fa, una memoria fondativa per l’arco generazionale dei nati negli ’80 e nei ’90, un evento di cui furono protagonisti quelli appena più anziani, da Tsipras in giù. È ormai un’eco piuttosto lontana che si è però riattivata nel luminoso anno in corso con il possente movimento contro «la buona scuola», per una scuola buona davvero.

È un campeggio che dura dal 23 luglio al 6 agosto, da 9 anni qui in Puglia, prima, ma era abbastanza diverso ( non si chiamava neppure Riot), in Toscana. Non è un camping-vacanza, o perlomeno non del tutto: serve alla «Rete della conoscenza» a mettere a punto la comune riflessione e strategia. Quando io arrivo- è solo il secondo giorno – sono circa 500, entro pochi giorni supereranno i mille.

Sotto gli ulivi, tra cicale assordanti

Camping La scogliera, Santa Cesarea Terme. Tende, bungalow, spiazzi aperti sotto gli ulivi, servizi garantiti dal lavoro volontario, costo 11 euro al giorno per persona, i pasti se li cucinano da soli in tenda. È collocato a mezza costa, a picco sulla scogliera mozzafiato di queste baie che circondano Otranto, il mare difeso da scogli aguzzi. Più sotto c’è comunque anche una piscina ma a fare il bagno non ci va quasi nessuno, se non per un tuffo rapidissimo: non c’è tempo. Gli studenti che popolano Riot sono sempre riuniti nei quattro spiazzi a diverse quote che consentono seminari, assemblee, dibattiti. I partecipanti seduti su un po’ di sedie ma molti per terra, nell’ombra frastagliata degli alberi, assordati da un inimmaginabile frastuono di cicale.

Quando arrivo, sabato sera alle undici circa, è in corso il dibattito sui migranti, animato da Filippo Miraglia e altri dell’Arci, ci sono anche i leccesi (specialisti in materia), in testa Anna Caputo, cui i ragazzi si riferiscono come «la signora di Nardò» perché non sanno che è la presidente dell’Arci della provincia, lei ha parlato come se fosse abitante di questo luogo simbolo dello sfruttamento, il paese dove pochi giorni prima è morto per fatica Mohamed, un uomo sudanese di 47 anni.

In programma, nei 14 giorni di Riot, i dibattiti sono 25. Verrà a parlare praticamente tutto il variegato arco della sinistra sociale e politica: da don Ciotti a Fratoianni coordinatore di Sel, da Landini a deputati di 5 stelle, Possibile,e una del Pd, da dirigenti della Cgil (ma solo quelli della Federazione lavoratori della conoscenza con cui c’è molta assonanza), alla Linke, Sbilanciamoci, persino l’Udi con un affollatissmo evento su Donne e Resistenza, subito finito in un confronto femminista.

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Il dibattito cui debbo partecipare io è insieme a Samuele Mazzolini, triestino, ricercatore presso l’Università inglese dell’Essex, con un passato di impegno in Ecuador e però ancora giovanissimo. Il tema è d’attualità, almeno fra chi cerca un lume nel buio della sinistra e insegue tutte le lucciole che si accendono, ora Podemos e Syriza: «Alto e basso, Sinistra e destra». E dunque gli scritti sul populismo di Ernesto Laclau, diventato ispiratore di Iglesias. Mazzolini è qui in rappresentanza di questo pensiero, io del secolo scorso, la famosa, antipatica cultura politica novecentesca; che trova tuttavia insperate simpatie fra i sedicenni. Finiremo di discutere all’una meno un quarto della notte.

Le discussioni qui cominciano alle 10 e mezzo del mattino e terminano intorno a mezzanotte, quando da almeno un’oretta impazza il ballo che poi dura fino alle 4. Lo gestisce un gruppo di dj fantastico, compagni di Campobasso. Al ballo partecipano tutti, i più svogliati che hanno abbandonato prima della fine i dibattiti appena inizia, i più impegnati quando terminano le assemblee che si dilungano. Finalmente relax .O meglio: il contrario, perché la danza al ritmo imposto dai molisani è frenetica, l’ultimo rock con sventolio di bandiere palestinesi.

I protagonisti, dai 16 ai 25 anni

Dai 16 (penultimi licei) ai 24-25, già in vista della laurea. I maschi, quasi senza eccezione, con acconciature che mi fanno rabbrividire (rasatura laterale e cresta di gallo oppure rasta). Ai tatuaggi sono ormai più abituata. “Normale” praticamente quasi nessuno (ma forse ad essere anormali sono i maschi che frequento di solito). Rapature anche fra le femmine, ma poche. Loro in T-shirt , talvolta camicie di velo, sui due pezzi (il costume da bagno, anche se non si bagnano, non se lo toglie mai nessuno). Le ragazze sono moltissime, sicure di sé, impegnatissime. (Penso all’austerità dei nostri convegni studenteschi anni ’40-’50).
Sono quelli della «Rete della conoscenza», cui fanno capo tutti i soggetti della formazione: l’Uds, studenti medi, nata nel lontano 1994 come sindacato affiliato alla Cgil, da cui si è staccata nel 2006 proprio perché non volevano , né potevano, essere solo sindacato. «La conoscenza non è un settore, è al centro di molti processi; non è solo lavoro, ha una potenzialità trasformatrice alta e per questo il suo protagonismo ha una valenza molto più generale», racconta Riccardo Laterza, triestino, dall’anno scorso coordinatore nazionale della Rete, contenitore anche di Link, associazione degli universitari e di tutti i soggetti in formazione, la sterminata fascia precaria dei dottorandi o aspiranti tali.

All’origine della «Rete» e delle sue componenti non c’è solo, naturalmente, una diversa idea della funzione di rappresentanza degli studenti, ma l’esigenza di una autonomia politica non solo dalla Cgil ma anche dalle «giovanili» dei partiti, in particolare, è ovvio, di quella degli allora Ds.

La loro autonomia la pagano molto cara: hanno perduto qualsiasi appoggio finanziario (di cui invece continuano a godere quelli che sono rimasti nel sindacato, la Rete degli studenti medi e la federazione studenti universitari direttamente legata al Pd). Per non parlare delle altre ricche associazioni studentesche esistenti in Italia, a cominciare dalla più grossa, Comunione e liberazione, il Movimento studentesco dell’Azione cattolica e quello «nazionale», emanazione di Fratelli d’Italia. Nell’elenco c’è pure una sigla sconosciuta – «Studicentro»- collegata all’Udc ma nessuno riesce a localizzarla.

In Francia, mi raccontano, le associazioni studentesche sono finanziate attraverso il contributo di un euro versato assieme alla tassa di iscrizione all’università che ognuno devolve a chi vuole. «Da noi ogni forma di finanziamento è bloccata perché ad averne bisogno siamo solo noi», dicono. E così cercano di raggranellare qualche soldo con progetti europei, quasi niente.

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Sebbene la «Rete» sia molto strutturata, con coordinamenti nazionali e provinciali, direzioni ed esecutivi per ciascuna branca e spostamento a Roma per il tempo del mandato, per coordinare e girare l’Italia e far sorgere o per assistere sezioni già nate, nessuno riceve retribuzione, solo un minimo rimborso spese. Nessun’altra organizzazione oggi in Italia ha altrettanta disciplina organizzativa e strutturazione articolata come la «Rete». (Fosse passata la sbornia dell’ultraspontaneismo?).

Non si tratta solo di organizzazione, le associazioni sono anche comunità: per l’addio di Martina, di Monopoli e dell’Università di Bari ma da due anni trasferita alla Sapienza di Roma perché fino a oggi nell’esecutivo dei medi e ora “promossa” a quello della «Rete», c’è stata una cerimonia qui al camping in cui tutti si sono abbracciati e commossi.

Da dove vengono, perché approdano alla «Rete», quanti sono? Le risposte sono imprecise (non c’è tesseramento) ma convergenti: fino a qualche anno fa quasi tutti provenivano da esperienze nelle giovanili dei partiti, anche se le avevano abbandonate.

Oggi non più. «Sono orfani della crisi della politica – dice Riccardo – cercano di colmare il vuoto che sentono attorno impegnandosi sui temi della propria condizione di studenti in questa scuola, in questa società. Ma a partire da qui si arriva al tema della liberazione dei saperi, dell’abbattimento delle barriere d’accesso. Provocatoriamente, noi poniamo l’obiettivo-limite della gratuità dell’istruzione a tutti i livelli, E però sappiamo che fino ad oggi siamo stati troppo contro e troppo poco impegnati a definire che cosa vogliamo. A ottobre ripartiremo all’attacco. Qui decideremo le nostre prossime scadenze».
Gli universitari, che fanno un po’ da tutori dei liceali, sono colti, seri, nessuna vena estremista, molto concreti, riflessivi. Una perla nella grigia apatia dell’Italia di oggi.

La «Rete» fa parte della Coalizione sociale di Landini ma non per avversione ai partiti: semplicemente per ora non sentono il bisogno di appartenervi, o non li hanno incontrati sulla loro strada. Del resto, hanno stabilito per chi fa parte degli organi dirigenti l’incompatibilità con l’appartenenza a un partito, per non subire le strumentalizzazioni del passato. La cultura della lotta alla «casta», però, sembra essergli totalmente estranea.

Mi siedo, al mattino, fra i circa 150 che partecipano al coordinamento dell’Uds, i medi. Una fila ininterrotta di interventi, non più di 10 minuti a testa, moltissimi del sud. Così vengo a sapere cosa vuol dire fare il liceo a Foggia («città di merda»); di Augusta, un posto che conosco bene perché ai confini con Priolo, dove negli anni ’50 della costruzione delle cattedrali nel deserto fu costruito qui un gigantesco polo petrolifero e io andai lì per uno dei miei primi reportage, per Nuova generazione, il settimanale della Fgci. Non sapevo ancora che avrebbe generato il cancro.

Poi uno di Campobasso che scherza quando si accorge che nessuno sa dove è il Molise: «Molise chi?» – inizia, e poi garantisce che la regione esiste davvero. Dall’intervento di un milanese so che almeno 25 compagni che avrebbero voluto venire al camping non hanno potuto perché nelle ferie estive vanno a lavorare: «Come edili, operai, baristi. In condizioni disumane. Il sindacato assente. E noi mica possiamo limitarci a parlare di scuola!».

«Ma come si fa a parlare di sciopero a chi non può farlo?», dice un altra, mi pare abruzzese (qui un po’ di indizi, NdR).

«L’Europa è terrificante»

Non parlano solo di scuola, ma tutti cominciano con la Grecia e poi l’Europa. «L’Europa è terrificante», dice uno. E un’altra che «il governo Renzi è il più autoritario della storia». Un pezzetto di Europa diversa cercheranno di costruirla anche a Riot: fra qualche giorno nel camping si terrà un incontro con studenti di molti paesi europei.

Poi la presidente avverte che non ci sarà pausa pranzo, non c’è tempo. Uno per ogni delegazione andrà alle tende e cuocerà la pasta, i pentoloni verranno portati su allo spiazzo da un camioncino. Gli spaghetti verranno mangiati nel corso del dibattito.

Il mare azzurrissimo si intravede fra gli ulivi, vicino e attraente, ma non se ne curano. Le cicale assordano, il caldo è micidiale. Il motto di Riot è «desideri in movimento»: per questo spicchio della prima generazione del XXI secolo, il desiderio maggiore sembra essere la riconquista della politica.

(Da quasi novantenne li trovo più simili alla mia di quanto sia stato con quella dei loro anziani).