Esattamente a distanza di mezzo secolo dalla messa al bando degli psichedelici – una classe di sostanze psicotrope che spazia dall’Lsd alla mescalina, dalla psilocibina contenuta nei «funghetti» alla Dmt presente ad esempio nell’ayahuasca –, anche l’accademia italiana sta iniziando a riscoprire il loro potenziale terapeutico.

Il loro impiego come coadiuvante della psicoterapia sembra particolarmente promettente contro molte condizioni psicopatologiche (come ansia, depressione, disturbo da stress post-traumatico e dipendenza da sostanze d’abuso), come mostra una crescente mole di ricerche che è tornata ad accumularsi a livello internazionale a partire dagli anni 2000, tanto da parlare di «rinascimento psichedelico».

Un filone in cui s’inserisce oggi un nuovo studio sul potenziale terapeutico dell’Lsd nei disturbi d’ansia, pubblicato su pubblicato su Neuropsychopharmacology: lo studio vede come primo autore Danilo De Gregorio, oggi ricercatore all’Università Vita Salute San Raffaele di Milano, dove è arrivato da poco dopo fruttuosi anni alla McGill University di Montreal.

Dall’Ateneo meneghino spiegano che la somministrazione di «basse dosi» di Lsd in un gruppo di topolini sottoposti a condizioni di stress si è dimostrata efficace nel ridurre i comportamenti d’ansia, agendo in un modo simile ai farmaci antidepressivi di tipo Ssri, come Prozac o Zoloft: lo studio suggerisce che Lsd agisca sul cervello aumentando la disponibilità di serotonina, legandosi al recettore 5-HT1A e desensibilizzandolo; a fronte della sua ridotta attivazione, i neuroni sarebbero così stimolati a rilasciare maggiori quantità di serotonina. Al contempo, Lsd si è dimostrato in grado di aumentare la neuroplasticità, una caratteristica fondamentale del cervello che si degrada in condizioni di stress, inibendo così la nostra capacità di modificare modalità di pensiero eccessivamente rigide e adattarci ad un ambiente esterno in continuo cambiamento.

Gli studi finora condotti sull’uso di «basse dosi» psichedeliche hanno dato risultati contradditori, dato che alcuni suggeriscono ricadute sul benessere degli assuntori paragonabili a un placebo, ma la vostra ricerca ha usato un altro approccio d’analisi: può spiegare la differenza col microdosaggio?
Il nostro studio è stato condotto su roditori utilizzando una bassa dose che tuttavia non può definirsi micro dose: abbiamo utilizzato una somministrazione ripetuta di 30 microgrammi/kg al giorno, per 7 giorni. Si tratta di una dose sicuramente molto bassa su di un topo, ma questi 30 microgrammi sul topo corrispondono ad una dose di circa 120 microgrammi sull’uomo, che non può assolutamente essere definita microdose in quanto è in grado di provocare allucinazioni. Dall’altro lato è anche vero che l’effetto placebo riscontrato sull’umano riguarda il potenziale effetto antidepressivo indotto dagli psichedelici. Sul roditore non abbiamo mai riscontrato un effetto antidepressivo in tutti i nostri studi, ma solo un effetto ansiolitico o pro-sociale (ossia in grado di aumentare la socialità) per cui non è da escludere che gli psichedelici possano essere considerati degli ansiolitici piuttosto che degli antidepressivi. È chiaro che occorrono ancora numerosi studi da effettuare per confermare i dati clinici ottenuti su diverse coorti di pazienti.

L’Italia ha appena inserito in modo ascientifico l’ayahuasca e i suoi composti nella tabella I del testo unico sulle droghe, qui è molto complicato fare ricerca sugli psichedelici: perché è arrivato al San Raffaele di Milano, e quali saranno le sue priorità di ricerca?
L’idea di poter lavorare in uno dei più importanti istituti di ricerca esistenti in Italia mi ha riempito di entusiasmo. Il mio obiettivo è quello di portare avanti la ricerca farmacologica sugli psichedelici e sui potenziali effetti terapeutici.

Ci sono altri gruppi di ricerca sugli psichedelici attivi in Italia?
Ci sono gruppi dell’Università Roma Tre e dell’Università di Ferrara che stanno portando avanti questo filone di ricerca.

Quali condizioni ritiene debbano verificarsi perché anche in Italia possa emergere un filone di ricerca sulla psicoterapia assistita da psichedelici, a dosaggi sufficienti per esperienze di picco?
C’è bisogno di investire molto su questo tipo di ricerca, sia di base che clinica. Senza «proof of concept» non si potrà arrivare ad una applicazione terapeutica. Anche perché parliamo di sostanze molto complesse da un punto di vista farmacologico, in quanto interagiscono con numerosi recettori. Bisogna anche tener presente che non è detto che sostanze come Lsd, psilocibina e Dmt possano essere direttamente usati come farmaci ad un fine terapeutico. L’Lsd ad esempio, grazie agli studi condotti da gruppi di ricerca dell’Università di Zurigo, viene utilizzato come strumento per studiare le connessioni cerebrali, attraverso tecniche di brain imaging. Inoltre, la continua ricerca, sia di base che clinica, può portare allo sviluppo di molecole analoghe a quelle precedentemente citate, molecole di natura sintetica dotate di un maggiore effetto terapeutico, senza avere effetti collaterali legati alle alte dose di psichedelici».

Il suo studio si sofferma sull’azione dell’Lsd sul recettore 5HT1A e sembra suggerire che dal punto di vista farmacologico lo psichedelico agisca in modo simile agli Ssri. Come si collocano questi risultati in rapporto al principale filone di ricerca emergente a livello internazionale, che si focalizza maggiormente sulla stimolazione del recettore 5HT2A e prova a spiegare gli effetti dell’esperienza psichedelica in termini di entropia cerebrale?
I risultati ottenuti nel nostro studio rappresentano una delle sfaccettature di una molecola molto complessa come l’Lsd, la quale, rispetto ad altri psichedelici è molto più “sporca”, in quanto, da un punto di vista chimico lega diversi recettori, tra cui appunto il 5-HT1A. È anche da tener presente che cross-talk interactions tra in recettori 5HT1A e 5HT2A sono presenti in diverse patologie come depressione ed ansia, per cui, la mutua modulazione di questi due recettori può contribuire ad effetti diversi indotti dall’Lsd. Sono necessari ulteriori studi per comprendere se la stimolazione dei due recettori serotoninergici è fondamentale per una determinata funzione o se l’una è indipendente dall’altra.

Solo in Italia circa 4 mln di persone riportano casi di depressione o ansia cronica grave, e – soprattutto tra i giovani – stanno crescendo casi di ecoansia, ovvero ansia legata all’avanzare della crisi climatica e ambientale. Al contrario, gli psichedelici sembrano favorire sentimenti di connessione con la natura che portano a maggiore benessere mentale e comportamenti pro-ambientali: possono essere parte della soluzione?
L’aspetto mistico-spirituale e l’aumentata connessione con l’ambiente che ci circonda indotta dagli psichedelici non rientrano nella mia tematica di approfondimento e di ricerca. È vero che il potenziale terapeutico degli psichedelici sembra essere correlato ad un aumento di quella che viene definita «l’entropia» del cervello, ossia quel fenomeno per cui il «livello di disordine» cerebrale cresce, dovuto ad aumento delle connessioni neuronali tra le diverse aree cerebrali. Se quest’effetto sia correlato o meno all’empatia con l’ambiente circostante indotta dagli psichedelici è ancora da verificare. Sicuramente tengo a puntualizzare che si deve fare molta attenzione in quanto stiamo parlando di sostanze che possono produrre degli effetti non terapeutici notevoli (aumento della pressione arteriosa, psicosi transiente, delirio). Per cui è di fondamentale importanza che l’assunzione di queste sostanze avvenga sempre in un setting clinico altamente controllato.