Ieri sera con l’ultima replica dell’Incoronazione di Poppea è calato il sipario su un traguardo importante per il Teatro alla Scala, che in un percorso durato sei anni, talvolta anche accidentato, ha portato a Milano la trilogia delle opere di Monteverdi, coprodotta con l’Opéra di Parigi, per la regia di Bob Wilson. Un risultato di valore storico, anche se il teatro musicale barocco e la musica antica vivono in Italia solo di spinte episodiche da parte dei teatri lirici e delle associazioni musicali.

Il risultato è che un pubblico folto e giovane spesso migra all’estero per seguire le proprie passioni musicali. Per Rinaldo Alessandrini, responsabile della realizzazione musicale delle tre opere, è sicuramente un raggiungimento significativo, anche se ricorda che: «la mia relazione con Monteverdi data da decenni, e con l’opera partiamo da Carfiff nel 1988, dove diressi la prima Poppea; da allora ne ho affrontato sette produzioni». Alessandrini ammette che in questo lungo cammino la sua stima per Bob Wilson è molto cresciuta, nutrita dal confronto costante con «un regista che ha il prezioso pregio di non sovrapporsi alla musica con invenzioni che esulano dal libretto, ma che sa illustrarlo sapientemente, creando un ambiente scenico e visivo in cui la musica fiorisce; un regista che serve la partitura nel modo migliore».

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Il direttore prosegue: «Wilson ha sviluppano uno stile molto connotato che può non piacere a tutti, eppure anche i cantanti, spesso perplessi sulle prime davanti a una gestualità che sembra sacrificare la libertà di movimento e espressione, imparano col tempo che più la musica è calda più i gesti devono essere freddi, una lezione di Wilson che condivido».

Il valore dell’impostazione di Wilson per Alessandrini risalta ancora di più in un panorama in cui: «a fronte di un ristretto gruppo di registi capaci di esprimere visioni efficaci e originali, come Alden, McVicar o Carsen, ce ne sono molti che giocano con la pura provocazione senza nemmeno capire che quel che portano sulla scena.

Alle critiche, che non sono mancate, pur nel complessivo successo dell’intera trilogia e della Poppea in particolare, Alessandrini risponde con pacatezza: «tutti concordiamo sulla difficoltà di presentare alla Scala opere nate per teatri molto più piccoli, ma per contro c’è il valore aggiunto dell’incontro fra Monteverdi e un pubblico più tradizionalista e più vasto. Il che conferma la bontà dell’operazione, nonostante le problematiche di carattere acustico».

Le risposte a alcune critiche sulla lettura musicale sono invece più secche: «chi continua a cercare in Poppea l’evento musicale come l’aria o il passaggio di fascino melodico sarà sempre deluso. Le orchestre dell’epoca si basavano quasi solo sul gruppo del continuo, cui si aggiungevano sporadicamente gli archi o magari alcuni ottoni, come ho fatto nella scena dell’incoronazione. Il recitar cantando – spiega Alessandrini – è una pratica basata molto più sulla parola che sulla musica, chi lamenta l’assenza di un’orchestra corposa, con raddoppi e fiati, mostra una conoscenza musicale basata su nozioni erronee e falsate, riferite non alla lettera del compositore ma alle numerose riletture novecentesche».

Il successo scaligero dei tre Monteverdi è visto come simbolo di un momento felice per la musica antica, ma Alessandrini tende a raffreddare gli entusiasmi: «il dramma degli ultimi quindici anni risiede nell’apparizione di alcuni cantanti d’opera di valore alterno che hanno beneficiato di un formidabile appoggio mediatico, dirottando verso l’opera – essenzialmente Handel – tutto l’interesse del pubblico, delle istituzioni e delle case discografiche. Nessuno nega il primato dell’opera, ma oggi il mercato musicale è del tutto viziato». Alessandrini lamenta che: «Trent’anni fa non avrei pensato che il percorso di ricerca musicologica condivisa con tanti amici avesse un tale esito: è un equivoco – ribadisce – che sta cancellando a livello europeo i festival di musica seicentesca, la possibilità di presentare al meglio la musica strumentale e sacra, e – conclude – nel complesso sta generando un impoverimento culturale, rispetto a un repertorio vastissimo e vario».