L’ultimo bastione del (sedicente) Stato islamico è stato conquistato a inizio febbraio. Nella città di Baghouz, al confine siriano con l’Iraq, l’ultimo drappello nero è stato ammainato. Secondo quanto diffuso dai media occidentali, lo Stato islamico non esiste più. Eppure tutto un popolo, ancora fedele ai suoi dettami, riemerge già dalle sue ceneri.

Da una parte i combattenti (e tra questi i foreign fighters provenienti da 80 diversi paesi), caduti durante il conflitto o fatti prigionieri dalle forze curde o peggio ancora irachene (con processi sommari che spesso portano alla condanna a morte). In pochi, i più fortunati, sono stati rimpatriati.

Dall’altra, il seguito di donne e bambini che via via hanno raggiunto le fila dello Stato islamico e che oggi affollano i (cosiddetti) campi profughi, improvvisati dopo la caduta dell’ultimo bastione nero. Una babele di nazionalità tra quante hanno deciso di aderire al sogno jihadista e per questo considerate alla stregua degli stessi terroristi. Certo, in molte hanno avuto ruoli attivi nelle fila dello Stato islamico e per questo già condannate nei propri paesi d’origine.

A pagare il prezzo più alto sono senza dubbio i figli del jihad, cresciuti sotto l’insegna jihadista e per questo portatori, loro malgrado, di un tasso di pericolosità tale da giustificare l’inerzia delle autorità dei paesi d’origine, in vista di un rimpatrio. Le loro vite sono in serio pericolo, costretti in campi profughi che sembrano veri e propri gironi dell’inferno.

«Stiamo parlando di campi di detenzione dove la situazione si aggrava ogni giorni di più, soprattutto dalla caduta di Baghouz», è la denuncia della ong Child focus, per voce della sua direttrice Heidi De Pauw, che aggiunge: «Parliamo di campi di detenzione in cui i diritti dell’uomo non vengono rispettati, dove al rischio medico e sanitario, legato alla mancanza d’assistenza e di malnutrizione, si aggiunge anche il rischio di radicalizzazione, un aspetto che non dobbiamo sottovalutare».

L’appello è agli Stati europei affinché procedano con urgenza al rimpatrio, nel rispetto degli accordi internazionali sui diritti universali dell’uomo e sulla protezione dell’infanzia. Argomento scomodo e difficilmente spendibile per la classe dirigente (soprattutto sotto elezioni), rispetto a una opinione pubblica male informata e ostile al «ritorno dei terroristi». Poco importa se stiamo parlando di bambini.

«Stiamo mettendo le basi per un secondo jihad», è la denuncia di Bernard De Vos, delegato ai diritti dell’infanzia della Federazione Wallonie-Bruxelles, il quale esprime un giudizio senza appello sull’azione degli Stati europei: «Sono irresponsabili, non stanno facendo nulla».

Difficile dare conto dei numeri. La diaspora dello Stato islamico porterebbe con sé circa 5mila profughi, con un passaporto europeo, tra donne, minori e combattenti. Tra i foreign fighters i due terzi provengono da soli quattro paesi: Francia, Regno unito, Germania e Belgio.

Sul tema dei rimpatri, ogni Stato adotta una propria politica. Il Regno unito è sicuramente il più intransigente, con l’annullamento della nazionalità per quanti hanno sposato la causa jihadista. Più morbida la Germania, aperta alla possibilità di rimpatriare i propri cittadini, in particolare i minori. Secondo quanto ci dice il ministero degli esteri tedesco «in Iraq forniamo assistenza consolare a otto cittadini tedeschi in detenzione. I loro figli possono, con il consenso dei genitori, essere restituiti ai parenti in Germania. Finora nove minori sono tornati dall’Iraq».

Il Belgio è tra i paesi europei più esposti al problema dei rimpatri, con il triste record di combattenti jihadisti per abitante (46 su un milione). Secondo l’ong Child focus, i minori fra Siria e Iraq sarebbero circa 160, di cui la metà nati nei territori dello Stato islamico. Di questi solo 35 sarebbero stati localizzati dalle autorità belghe (e quindi potenzialmente rimpatriabili); tre invece sarebbero deceduti di recente per le precarie condizioni di vita. Il rimpatrio non ha una procedura definita e i familiari residenti in Belgio che ne fanno domanda devono affrontare una vera e propria giungla amministrativa, con procedure non sempre alla portata di tutti i portafogli.

Ancor più complicato procedere al rimpatrio di un minore con più di 10 anni. Se sotto questa soglia lo Stato belga si è formalmente impegnato al rimpatrio (anche se fino ad ora, sempre secondo Child focus, sono solo tre i minori rientrati dalla Siria), sopra i 10 anni il rimpatrio è frenato dalla paura dell’indottrinamento a cui sarebbero presumibilmente stati sottoposti.

Un atteggiamento «deplorevole» per Bernard De Vos (delegato ai diritti dell’infanzia), che sottolinea l’assurdità di questa distinzione e la necessità di «procedere urgentemente al rimpatrio senza distinzione d’età». Poiché, aggiunge, solo attraverso «la via legale si potranno sottrarre questi minori da un ulteriore indottrinamento jihadista».

La Francia, con l’altrettanto triste record di numero assoluto di combattenti islamisti (1.900), conterebbe circa 450 minori, secondo l’International centre of the study of radicalisation di Londra (dati del 2018), di cui un terzo nato nei territori occupati dallo Stato Islamico. Circa 150 invece, per le autorità francesi, i minori presenti a Rojava, il Kurdistan siriano.

Di fatto, a oggi, sarebbero stati rimpatriati solo cinque minori, orfani di padre e madre. Una situazione esasperante, tanto da indurre due famiglie (le cui figlie, con rispettivi nipoti, sono detenute nel campo profughi di Al Hol, nel nord est della Siria), a chiamare in causa la Corte europea dei diritti dell’uomo, chiedendo la condanna dello Stato francese, colpevole di esporre deliberatamente i minori a «trattamenti inumani e degradanti».

L’avvocato che segue il caso, Marie Dosé, ha recentemente dichiarato alla stampa transalpina: «Nel momento in cui si fanno pagare ai minori le scelte dei propri genitori, siamo andati oltre la giustizia».