Che quello sull’esplosione al porto di Beirut diventasse un processo complicato non era cosa di difficile previsione. Ma la rimozione del giudice Fadi Sawan a soli sei mesi dall’incarico di indagare sui fatti che il 4 agosto scorso hanno provocato circa 200 morti, 7mila feriti, migliaia di sfollati e la distruzione di intere aree della capitale, contribuisce certamente a creare un nuovo cono d’ombra.

Il capo della Corte di Cassazione al-Hajjar ha motivato la sua decisione di giovedì scorso asserendo che Sawan correva il rischio di essere poco oggettivo nelle sue valutazioni, essendo coinvolto emotivamente in prima persona poiché residente ad Ashrafieh, uno dei quartieri più colpiti.

La decisione arriva dopo che l’ex ministro dei lavori pubblici e dei trasporti Zeaiter e l’ex ministro delle finanze Khalil (entrambi del partito Amal) avevano presentato un esposto a dicembre contro Sawan, il cui contenuto è secretato. I media locali hanno tuttavia pubblicato una fuga di notizie secondo cui gli ex ministri accuserebbero Sawan di «non rispettare l’immunità parlamentare».

Il giudice, che aveva già spiccato decine di mandati di arresto, aveva rinviato a giudizio i due, assieme a Fenanios (Movimento Marada), altro ex ministro ai lavori pubblici, e all’attuale premier ad interim Diab.

A settembre scorso Khalil e Fenainos erano stati tra l’altro sanzionati dall’amministrazione Trump con l’accusa di corruzione e supporto di Hezbollah e avevano visto i loro conti e beni negli Stati uniti congelati.

A dire il vero già la scelta del giudice ad agosto si era rivelata non semplice. Il nome di Sawan non fu il primo della lista, ma il terzo. La ministra cristiano-maronita ad interim Najem aveva prima di lui indicato il giudice Samer Younes, criticato per la sua vicinanza al presidente Michel Aoun e respinto dal Consiglio superiore della Magistratura, e poi Tareq Bitar, che aveva rifiutato senza rendere pubblica la motivazione.

Anche Fadi Sawan, il cui sforzo si era concentrato negli ultimi anni prevalentemente contro il terrorismo di matrice islamica siriano e libanese, non era stato esente da critiche, accusato in più occasioni di essere allineato con le forze pro-Assad in Libano, ovvero Hezbollah e i loro alleati Amal e il Movimento patriottico libero, il partito di Aoun.

Alla notizia della rimozione, le famiglie delle vittime si sono radunate a Beirut nella zona di Adlieh davanti al Palazzo di Giustizia, leggendo in quest’atto una volontà politica di depistaggio o quanto meno un rallentamento inopportuno del processo.

Il testimone passa ora al presidente delle Corte penale di Beirut Tareq Bitar, che ha stavolta accettato l’incarico. La ministra Najem lo ha riproposto dopo aver incassato l’ennesimo riufiuto da parte del Csm sul discusso Younes.

Intanto il Libano non sembra riuscire a risollevarsi dalla devastante crisi economica che ha portato la lira libanese a una svalutazione effettiva dell’85%. L’ormai introvabile dollaro, seconda moneta ufficiale che formalmente ha ancora valore di 1.500 lire, ha toccato punte di 9.500 al mercato nero per quasi tutta la settimana scorsa, per non parlare dei conti in banca che continuano a essere bloccati.

Inoltre, lo stato di emergenza sanitaria dichiarato a gennaio causa Covid ha costretto il paese a un lockdown totale da ormai un mese. Sulle riaperture parziali verso la metà di marzo il governo si riserva modifiche in qualsiasi momento. Le vaccinazioni procedono a rilento e il secondo carico di appena 31.500 dosi è arrivato solo sabato 20 febbraio.

Sul versante strettamente politico, permane il gelo tra il premier designato Hariri e Aoun, che da ormai cinque mesi impedisce la formazione di quel governo che dovrebbe portare fuori dall’impasse il paese sbloccando i 253 milioni di euro raccolti in occasione della catastrofe al porto dalla commissione internazionale capeggiata da Macron.

Hariri spingerebbe per una squadra di tecnici che metta in pratica le indicazioni del piano francese, mentre il presidente sarebbe per un governo politico. Di pochi giorni fa la visita del premier libanese all’Eliseo, dove ha incontrato un Macron deciso a portare avanti l’iniziativa e sulla quale ha puntato in termini sia di prestigio personale che di riassetto e riposizionamento della politica estera francese in Medio Oriente. La visita, la terza dall’esplosione, programmata a dicembre e poi rinviata, sarà ricambiata a breve.

La popolazione è allo stremo, gli scontri di Tripoli di poche settimane fa che hanno portato all’uccisione di un giovane da parte della polizia sono solo un indice minimo di una frustrazione e una disperazione senza precedenti. L’emigrazione giovanile, di chi almeno riesce a trovare una via, è tornata ai livelli della guerra civile (1975-90) e il sogno rivoluzionario della thaura dell’ottobre 2019 si è lentamente trasformato in un incubo.