Sono ben vent’anni che intellettuali e studiosi di tutto il mondo si riuniscono in estate nell’accogliente e bellissima San Gimignano per partecipare alla Summer School on Religions, un convegno organizzato dal CISRECO (Centro Internazionale di Studi sul Religioso Contemporaneo) e dall’ASFER (Associazione per lo Studio dei Fenomeni Religiosi). Quest’anno i curatori degli incontri, tra i quali spiccano personalità come il prof. Arnaldo Nesti (direttore scientifico del CISRECO), Enzo Segre (docente di antropologia UAM di Città del Messico) e Andrea Spini (docente di Sociologia all’Università di Firenze), dedicano i seminari a “Conflitti sociali e religione nel Mediterraneo” (San Gimignano, Sala Tamagni 28 agosto-1settembre 2013). In un presente in cui sono tristemente evidenti le drammatiche disparità economiche, i diversi assetti politici e le grandi fratture sociali presenti nei paesi che si affacciano sul mare nostrum, la scelta di offrire lo spazio della Summer School alla documentazione, alla ricerca e al dibattito sullo stato attuale di tali questioni, appare più che mai appropriata.

In questo senso, un contributo sostanzioso alla programmazione viene da Springarab, un progetto IRSES (programmi internazionali di scambi tra il personale di ricerca), coordinato da un lato da Aissa Kadri, professore di Sociologia dell’Université Paris8 e dall’altro dalla professoressa Giovanna Campani, docente di Pedagogia Interculturale alla facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze. Come mi spiega la Prof.ssa Campani, Springarab nasce nel gennaio del 2012 con l’obiettivo di studiare i movimenti sociali che hanno portato ai recenti processi di democratizzazione nei paesi del Nord Africa.

Con uno spiccato carattere di mobilità, il programma ha portato in Italia molti studiosi delle università di Tunisia, Algeria e Marocco. Le ricerche nate in seno al progetto si incentrano sui cambi sociali generati dalle recenti rivoluzioni, che prendono in Occidente il troppo edulcorato nome di “primavere”. Uno speciale interesse è rivolto a quei soggetti che ne sono stati i veri protagonisti, ovvero i giovani e le donne, e alle metodologie, specialmente quelle tecnologiche, attraverso le quali le mobilitazioni hanno preso piede, sfociando in vere e proprie rivolte.

Il programma generale della Summer School riflette quest’anno le linee d’ investigazione promosse dalla rete: il rapporto tra politica e religione, la questione identitaria e di genere, i cambi sociali post rivoluzionari e i processi migratori, trattati da una prospettiva socio-antropologica. Un approccio di importanza cruciale soprattutto in un momento in cui i governi a maggioranza di partito islamista, instaurati dopo le primavere, traballano sotto le proteste di una società civile che ha assaggiato la libertà d’espressione, la parità di diritti e soprattutto la possibilità di manifestare il proprio dissenso. Il caso di quella che conosciamo come “rivoluzione dei gelsomini”, in Tunisia, è forse quello più emblematico poiché racchiude molti degli aspetti di interesse della ricerca promossa da Springarab: il ruolo della donna e dei social media che sono stati cruciali nella rivoluzione tunisina e vengono affrontati negli interventi di giovani studiose.

Per parlare di genere e tecnologie dell’informazione, la sociologa tunisina Houalda Ben Khater nel suo intervento, ricorda la figura di Ben Ali, il dittatore deposto dalla rivoluzione, che esercitava il suo potere attraverso una cura maniacale della propria immagine e il controllo mediatico. Famoso per essere il dittatore “informatico e informatizzante”, per aver cioè promosso la formazione di giovani informatici, Ben Ali si è trovato intrappolato in un paradosso mediatico oscurando il maggior motore di ricerca mondiale e i più importanti social network. Ma, proprio grazie alle loro competenze informatiche, molti giovani tunisini hanno facilmente recuperato l’accesso a questi siti, rivendicando così la loro libertà d’informazione. In questo senso, Ben Khater, riflette su come sia stato lo stesso dittatore a innescare quella resistenza mediatica anonima e a favorire conseguentemente una complicità virtuale tra i giovani che si è rivelata determinante per l’esito della successiva rivoluzione.

La realtà virtuale cambia dunque la pratica e il senso della militanza politica: la sociologa chiama “avatar rivoluzionario”, l’alter ego virtuale militante che grazie all’uso integrato delle tecnologie (smartphone in primo luogo) e di internet agisce in rete come in piazza, raccogliendo informazione e diffondendola in tempo reale. Durante la rivoluzione tunisina Internet diviene lo spazio pubblico dove per la prima volta potenzialmente tutti i tunisini prendono parte attiva alla vita politica del loro paese. Di corpo fisico e corpo “mediatizzato” in rete si continua a parlare durante  l’intervento di Tiziana Chiappelli dell’Università di Firenze. Chiappelli riprende il caso di Amina Tyler, la giovane attivista tunisina che ha usato la nudità come veicolo di protesta contro il dogmatismo islamico.

Non è stata la prima; la relatrice ricorda il caso della blogger egiziana Alia el Mahdi che nel 2011 diffuse in rete la  propria foto nuda come protesta a una cultura definita “razzista, sessista, violenta e ipocrita”. Dopo l’affiliazione al gruppo attivista Femen, l’incarceramento nel maggio di quest’anno e l’uscita dal collettivo che accusa di essere islamofobo, Amina promette nelle recenti interviste di dare una svolta più politica al suo impegno. A tutti gli effetti, l’aspetto più rilevante di queste proteste è l’uso del corpo, da parte delle donne, come veicolo di espressione e di rivendicazione di quei diritti che la cultura islamica nega.

Se c’è un femminismo nell’Islam che usa il corpo svestito per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su una condizione spesso troppo impari, nel tentativo di dare alla nudità un senso diverso da quello sessuale, esistono altre tipologie di attivismo femminile e femminista che invece recuperano l’uso del velo (o meglio dei veli) come affermazione di appartenenza alla cultura e al credo islamico, e quindi come simbolo di un’identità precisa. È significativo in questo senso l’intervento di Mariem Guellouz, ricercatrice del Centro di Antropologia Culturale dell’Université Paris-Descartes. Attraverso una ricognizione teorica di tipo semiotico, la studiosa individua le differenze tra i diversi tipi di velo, e il messaggio che essi veicolerebbero, riconoscendo una traccia d’identità storica nel tissu (velo integrale che lascia scoperto solo il volto della donna) già attestato in epoca cartaginese, e allo stesso tempo sociale, giacchè la donna che lo porta sarebbe spesso vicina al matrimonio.

Guellouz riflette sul senso di liberazione o al contrario di castrazione che in epoca contemporanea è stato conferito al velo, ricordando come la celebre immagine di Habib Bourguiba che solleva il velo scoprendo la faccia sorridente di una donna, sia divenuta l’icona della lotta femminista di donne tunisine e maghrebine. Ma il velo è segno di appartenenza religiosa e ideologica, e il femminismo islamico nella sua più vasta contestazione al colonialismo occidenale, se ne riappropria sempre più spesso, per difendere la propria identità e pluralità. Così se il cambio del rapporto con il velo, ovvero con l’occultazione degli attributi femminili, racconta la storia dell’emancipazione delle donne tunisine, è vero anche che nella militanza contemporanea si recupera un valore religioso ancestrale. L’antropologa Annamaria Rivera chiosa la riflessione sul corpo individuale, sulla sua messa in scena, il suo svelamento con un intervento sull’autoimmolazione, tema centrale anche del suo ultimo libro “Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all’Europa” (Edizioni Dedalo, Bari, 2012).

L’uso del corpo come mezzo di contestazione arriva alle sue estreme conseguenze nell’autosacrificio, e se la tradizione islamica vanta un macabro primato nel suicidio come atto terroristico, l’autoimmolazione tra le fiamme di Mohamed Bouazizi, il giovane venditore ambulante la cui morte dette il via alla rivolta tunisina, spinge più avanti la protesta trasformando la distruzione volontaria del corpo individuale in mobilitazione dell’intero corpo sociale. Rivera osserva come, nonostante sia l’Islam che il cristianesimo condannino il suicidio, quello delle torce umane non sia un fenomeno circoscritto al Maghreb, ma tocchi altri paesi del Mediterraneo come la Francia e l’Italia, e legge in questo gesto atroce la volontà estrema di prendere parola pubblicamente per riacquistare una dignità, calpestata fino a quel momento . Al termine degli interventi sulla Tunisia, Filippo Del Bubba e Alessandro Doranti, (videomaker e giornalista livornesi) presentano 4 dei 7 episodi che costituiscono il loro  documentario Frammenti di una rivoluzione. Il lavoro è un web reportage organizzato in clip (dentro e fuori Tunisi) e finanziato grazie alla piattaforma di crowdfunding Produzioni dal basso, una serie di frammenti che riportano storie che prendono vita sullo sfondo della rivoluzione tunisina. “Ci affascina sfruttare a nostro favore le oggettive possibilità della produzione, anche rispetto al budget e alle tempistiche, e la tecnica video: per esempio il voice over sostituisce la mancanza di fonico.

La nostra stessa collaborazione (tra il realizzatore che viene dalla video arte e un ricercatore che fa giornalismo d’inchiesta) impone una costante flessibilità e ci permette di integrare pratiche e punti di vista molto diversi sulla realtà”. In effetti, nei frammenti la soggettività tipica del giornalismo narrativo si fonde  con la ricerca sociale  sul campo di stampo etnografico che presuppone un’immersione nella realtà sociale che si distanzia radicalmente dalle pratiche asettiche del giornalismo televisivo attuale. Con l’intento riuscito di demolire certe stigmatizzazioni occidentali sulle rivoluzioni che hanno acceso i  paesi del nord Africa, a partire per esempio dal nome di “rivoluzione dei gelsomini” che “in Tunisia non usa nessuno”, il documentario riporta al centro del convegno la vita della gente tunisina, la tragedia quotidiana della società reale in un contesto, condiviso con gli altri paesi del Maghreb, dove le tensioni sociali e religiose minacciano costantemente il diritto a un’esistenza degna. Un grato momento di concretezza dopo riflessioni necessarie ma rischiosamente troppo teoriche rispetto alle faticose transizioni che le genti del Maghreb sono costrette ad affrontare.