«Abbiamo conversato su un po’ di tutto – racconta Giuseppe Moretti di ritorno pochi giorni fa dalla Sierra Nevada, dove ha fatto visita al poeta e bioregionalista Gary Snyder – di Trump, che considera una vera disgrazia per l’America e per il mondo intero, degli alberi che ha dovuto tagliare e di come l’assenza di quegli alberi l’ha costretto a costruire una tettoia per tenere la macchina e il pickup all’ombra. Dice di stare bene (e si vede, si è un po’ appesantito nel fisico ma la mente è ancora lucidissima).

Siamo poi andati a fare un giro attorno alla casa e laddove ha dei meli abbiamo visto una grossa orma di orso e i segni evidenti degli artigli sul tronco e sui rami più bassi. “Dev’essere stato qui stanotte – dice Gary – le mele sono mature e loro devono in questo periodo mangiare molto prima di andare in letargo”. Poi entriamo in casa, ci accompagna nelle varie stanze, ci intratteniamo ad ammirare la vecchia stufa, nel soggiorno ci sono vari quadri,  raffigurazioni del Buddha e di Smokey the Bear, qualche pelle appesa o a cavalcioni della sedie, tre accette in fila contro la parete. Dietro un recipiente con varie frecce c’è il quadro di «Madre Orsa» e un po’ più spostato il posterino che ho fatto io della poesia «Otzi Crosses Over». Laddove aveva la camera da letto ora c’è il suo studio, “il barn – fienile, come lo chiama lui – è oramai pieno di libri, così preferisco stare qui e per dormire ho una poltrona-letto”. Infine ci fa vedere la stanza dove dormiremo, tira fuori tre tatami e li stende per terra “la parete è di vetro, così magari stanotte vedrete qualche orso che passa” dice compiaciuto».

Wikipedia riporta che «Il bioregionalismo è un approccio etico, politico, ideologico, legato al territorio in cui si vive, considerato come un insieme omogeneo dal punto di vista morfologico e da quello degli esseri viventi. È una teoria ecologista, basata sull’individuazione e lo studio di aree naturalmente definite chiamate bioregioni o ecoregioni, formulata per la prima volta da Peter Berg e Raymond Dasmann alla fine degli anni 60».

Nel 1996 è nata la Rete Bioregionale Italiana e nel 2010 il Sentiero Bioregionale con Giuseppe Moretti, che qui spiega più in dettaglio cos’è il bioregionalismo.

È un’idea molto semplice ma difficile da spiegare. Come dice Peter Berg il bioregionalismo è sia un territorio geografico che un territorio della mente. Ovunque noi siamo, siamo in una bioregione. Una bioregione è un insieme di relazioni. Un bacino idrografico è di per sé una bioregione, non è una monocultura, è un insieme di biodiversità. E’ contraddistinto dall’elemento acqueo, che collega chi sta a monte e chi sta a valle. La bioregione del Po per esempio contiene al suo interno tante microbioregioni che fanno riferimento ai suoi affluenti. Questa idea è nata nel movimento degli anni ’60 negli Stati Uniti. Quando il movimento si è sfaldato, molti si sono irradiati nel paese, soprattutto nelle aree più marginali, più lontane da quella che era diciamo così la mano del potere, in luoghi remoti dove praticare la propria esistenza senza imposizioni e hanno scoperto che c’era tutto un mondo, vivo, e la consapevolezza che noi viviamo in un luogo che è vivo e siamo parte di esso.

I confini sono messi in base a ragioni sociali, territoriali, di dominio. La pianura Padana per esempio è costituita da 5-6 regioni e magari da un lato del fiume c’è una legislazione e dall’altro lato ce ne è un’altra, che vanno a cozzare con quelli che sono gli interessi della bioregione. In poche parole sia negli Usa dove è più evidente ma anche nel vecchio continente l’uomo si è insediato in modo arbitrario, andando oltre quelli che sono gli equilibri della bioregione che sono alla base della sopravvivenza, della vita. Il territorio è stato manipolato e il lavoro da fare è enorme, immane, però se vogliamo un futuro che abbia continuità e significato – e lo vediamo nelle emergenze ambientali che tocchiamo con mano – saremo costretti a cambiare rotta. Se non arriviamo a una società che si fa carico dell’importanza dell’elemento ecosistemico in cui vive, non ci sarà futuro.

Si tratta di passare da una visione antropocentrica, l’uomo al di sopra di tutto, a una visione ecocentrica, l’uomo parte di un insieme. Dopo è chiaro che ogni specie ha bisogno del proprio spazio, ma facendo riferimento a quelli che sono stati un po’ i nostri maestri, le culture native, loro non depauperavano quella che era la base del loro sostentamento. Noi dovremmo arrivare a questo.

Questo implica non considerare più la natura come qualcosa di inerte…

Assolutamente, è qualcosa di vivo, intelligente. Dovremo fare diversi passi indietro, iniziando con l’ammettere che la natura non è spiegabile in tutto e per tutto. Dovremmo smettere di cercare sempre di spiegarla, razionalizzarla, e lasciare quella parte di mistero che le è congeniale e che è vitale per la sopravvivenza del tutto. Il bioregionalismo mira a un superamento della nazione-stato, propedeutica per questi organismi cancerosi che hanno in mano il mondo, la vita delle persone, gli ecosistemi e tutto. La bioregione di per sé è la fine dello stato, ogni bioregione si amministra da sé con le persone che ci vivono e ne conoscono le potenzialità e i limiti.

E’ una visione utopica…

Certo, l’idea bioregionale non è un dogma, è un percorso, un percorso da fare prima individualmente. È una traccia che dà una speranza concreta verso un sistema armonioso con tutte le forme viventi. È una visione di uguaglianza che si trasferisce anche nel sociale.

Le origini storiche del bioregionalismo?

Si può partire dal cosiddetto summit svoltosi su un barcone a Sausalito, in California nel febbraio 1967, con Timothy Leary, Gary Snyder, Alan Watts e Allen Ginsberg, pubblicato poi dal San Francisco Oracle, il famoso giornale underground, tradotto in seguito da Fernanda Pivano e pubblicato nel libro L’altra America negli anni Sessanta. I protagonisti di quel dialogo erano punti di riferimento del movimento. Watts era diciamo il maestro spirituale, Leary il maestro dell’allargare le porte della percezione, Ginsberg l’irruenza della protesta e Snyder era quello pratico. A un certo punto Leary chiede a Snyder: «tu che sei molto terra terra, pratico – Snyder viene dalla campagna, scalatore, lavoratore sui monti tra i boschi – cosa puoi dire di pratico per iniziare un percorso?» – e Snyder: «scegliti un posto, pianta una tenda, guardati attorno, vedi come sono gli alberi, i fiumi, i venti dominanti, il clima, poi scegli quello che vuoi fare, il contadino, il cacciatore, l’artigiano e comincia ad abitare quel luogo, impara la cultura di quel luogo, la cultura ancestrale di quel luogo, gli insegnamenti dei nativi di quel luogo, come facevano per vivere in quel luogo in maniera rispettosa, rispettandone gli equilibri, quelli sono i veri maestri…Devi imparare dalla sapienza delle culture native e poi applicarla nel concreto. Devi risintonizzarti con gli elementi della natura e iniziare un nuovo percorso». Questa secondo me è l’origine del bioregionalismo.

Quale è stato il tuo percorso?

Io sono nato contadino, ma non ero pronto per essere contadino. Erano gli anni 60, ero giovane, sono del 1948, sono arrivato alla terza media, che poi in effetti era terzo avviamento professionale, ma l’ho fatto a fatica. Sono nato in campagna, figlio di contadini, ma come molti altri della mia generazione c’era questa cosa dentro di me che non mi faceva stare bene, ci sentivamo a disagio in un mondo così conformista. Io a scuola proprio non ne volevo sapere, insegnavano cose che, forse sbagliavo, allora lì per lì non mi davano niente. Questo non voleva dire che non volevo imparare, solo che volevo imparare le cose che sentivo importanti. Quando sono saltati fuori il movimento beat, i Beatles, i Rolling Stones, la rivista Mondo Beat, Gianni Milano, Fernanda Pivano, in quel fermento mi sono riconosciuto. Ma vivendo in campagna non avevo la possibilità di sviluppare queste idee, quindi ho cominciato a guardarmi in giro e a fare i primi viaggi, a Milano, a documentarmi, con le pubblicazioni, e poi a un certo punto ho scelto di andare via dalla campagna. Il mio papà aveva bestie da latte quindi era un impegno continuo, non c’era la possibilità di andare, esplorare…e mi sentivo soffocare nella ricerca di qualcosa che riempisse il vuoto che avevo dentro. Sono andato via dalla campagna, vivevo lì ma andavo a lavorare in città, operaio in una fabbrica di indumenti, avevo tempo libero il fine settimana e in più le ferie. In quei momenti giravo, esploravo, conoscevo gente e ho iniziato a viaggiare, a Londra, in Canada, negli Stati Uniti. Il primo viaggio non l’ho fatto negli Stati Uniti, mi sembrava troppo. Sono stato in Canada. Il contadino non fa il passo più lungo della gamba, ti puoi immaginare, ero un ragazzino di campagna, timido, che non sa quasi niente, la lingua…in Canada è stata una bellissima esperienza, in autostop nell’Ontario e nel Quebec, in ostelli che costavano pochissimo, sui bus Greyhound su a nord, volevo sentire la natura pulsante. Nella campagna in Italia già cominciavano a tirar via tutte le piante, la monocultura avanzava a passi da gigante, sentivo il bisogno di un contatto con la natura viva, e in Canada è stato come arrivare in un altro mondo. Nel viaggio successivo ho fatto costa a costa Toronto-Vancouver-San Francisco e da lì negli stati del sud per tornare poi a Toronto. A quei tempi c’erano tanti contatti, incontri, concerti…tra noi giovani ci si riconosceva subito, il capello un po’ più lungo, la camicia un po’ a fiori, era subito amicizia, ospitalità.

Come hai conosciuto Gary Snyder?

Dopo aver letto I vagabondi del Dharma di Kerouac ho scoperto che il personaggio di Japhy Ryder era in realtà Gary Snyder. Ho visto che in questo personaggio c’era un idea, non era solo contestazione, ribellione, aveva un’idea, un punto di riferimento, un’idea di dove andare, quindi ho iniziato a leggere i suoi libri, in inglese che sapevo a malapena tre parole, però ogni volta era una scoperta, le poesie erano più complicate da capire ma i saggi, la prosa, mi riverberavano dentro nel senso che il mio io profondo si ricosceva in quelle parole, non era un comizio, un parlare per parlare, erano parole che andavano alla fonte dei problemi, e delineavano una strada, un percorso. Snyder l’ho conosciuto negli anni ’60, attraverso i suoi libri, personalmente solo nel 1991, al primo raduno della bioregione Shasta, dal nome del monte sacro agli indiani della regione, in California, organizzato da Planet Drum. Ci ha presentati Peter Berg. La prima volta a casa sua ci sono andato nel 2006. Adesso ha 87 anni, è ancora molto lucido, molto attivo, sta per uscire anche in Italia il suo libro di poesie This Present Moment, del 2005, con una mia postfazione, tradotto da Rita Degli Esposti, poetessa e bioregionalista (ha tradotto di Snyder anche «Nel Mondo Poroso»). Sono poesie di viaggi, incontri, luoghi che ha visitato, l’Italia, la Toscana, il Davide di Michelangelo, Oetzi, la mummia del Similaun che abbiamo visitato insieme al museo archeologico di Bolzano e 7 poesie brevi dedicate a Roma, a Pitigliano, alla Maremma, alla valle del Po e alle Alpi.

Hai conosciuto Jim Koller...

Certo fa parte del movimento bioregionale, ma torniamo un attimo indietro, al mio andare via dalla campagna. A un certo punto, dopo aver viaggiato, esplorato, sperimentato, ho fatto la mia scelta, tornare là da dove ero partito. In me era nata la convinzione che non è necessario andare in posti bellissimi dove la natura è lussureggiante e più vergine che non si può, la Terra è bella ovunque, merita di essere vissuta e soprattutto c’è bisogno che sia abitata con un altro modo di vederla. Sono stato fortunato ad avere un fazzoletto di terra, 6 ettari, il podere di mio padre, dove mettere in pratica le mie convinzioni. Nel 1977 sono tornato, me ne ero andato nel 1969, e ho iniziato a cambiare il modo di coltivare. Mi ci sono voluti 13-14 anni per cambiare l’indirizzo del podere e farlo diventare tutto biologico. Ti puoi immaginare le battaglie col mio papà che era una gran bella persona, onesta, ma per lui coltivare senza questo e senza quello voleva dire andare in rovina. Mi sono messo in rapporto con il luogo, ho cominciato a scoprirlo, anche se era stato rimaneggiato, rivoltato, tagliato, ho cominciato e rivederne l’energia, e c’era una grande energia. Per prima cosa ho iniziato a rivitalizzarne la biodiversità, ogni persona che vive nel proprio terreno deve sì guadagnarsi da vivere ma ha anche un obbligo verso quel terreno, perché in quel terreno non ci sei solo tu. Avevo il Po vicino, e il fiume ti parla, quando fa le piene e porta giù roba ti dice che a monte ci sono dei guasti, ti fa capire che è giusto impegnarsi nel proprio luogo ma c’è tutto il resto, e a questo punto arriva l’idea bioregionale, l’idea di insieme.

Nel 1994 sono venuti Peter Berg e Judy Goldhaft, sua moglie (nel 1973 avevano fondato Planet Drum) per una serie di conferenze a Roma, alla Sapienza, e da lì nel 1996 è nata la Rete Bioregionale. Tra i bioregionalisti conoscevo Gary Lawless, che sarà di nuovo in Italia dal 12 ottobre al 12 novembre, e il 29 ottobre parteciperà a un incontro in Umbria nel podere di Etan Addey, nella valle del Chiascio. Un giorno ho chiesto a Lawless se potevo pubblicare su Lato Selvatico una certa sua poesia e lui tutto contento «sì sì’ fai pure» e mi chiede se conoscevo Jim Koller. Lo conoscevo solo di fama. Quindi Gary mi ha messo in contatto con Koller che mi ha madato The Bone Show, una raccolta di poesie molto potente. Jim veniva spesso in Europa, in Italia, minimo due volte l’anno, e ha iniziato a passare assiduamente anche da me e assieme siamo andati in giro per l’Italia, lui a fare reading io a divulgare l’idea bioregionale.

Qualcuno vorrebbe l’indipendenza della Padania...

Le varie leghe e movimenti regionalisti niente hanno a che fare col bioregionalismo, sono la fotocopia dello stato in sede locale. Vogliono esattamente quello che vuole questo stato e questo sistema canceroso. La bioregione è il luogo della pratica, non è un distaccarsi da tutto il resto, è il luogo dell’azione, è il luogo che puoi percorrere agevolmente, dove vivi, dove conosci le persone, la cultura, dove puoi fare qualcosa di concreto. È giusto e bello fare marce per le balene, per la foresta amazzonica ma c’è un luogo reale nel quale tu puoi agire e di riflesso influire su tutto il resto. La bioregione inzia con un bacino idrografico ma questo finisce in mare e lì si connette con tutto il mondo, con tutte le altre bioregioni e alla fine siamo tutti collegati. È urgente chiudere con questo colonialismo, questi poveretti che arrivano via mare sono il risultato di anni e anni di colonialismo che continua tutt’oggi. Colonialismo non è solo andiamo e fondiamo l’impero, è il continuo sfruttamento delle risorse, gli stiamo togliendo il pane dalla bocca. Bioregionalismo è un modo per dire basta con tutto questo, è chiaro che ci vuole tempo, però va in questa direzione. Mi ricordava Jim Koller che per Snyder la prima classe operaia sono le piante, non siamo noi. Questa estensione al mondo circostante del senso di comunità la sinistra non la capiva negli anni ’60 e c’è difficoltà tutt’oggi a fargliela capire. Stiamo solo riproponendo l’idea di comunismo includendo non solo l’uomo ma tutto il resto, perché siamo parte di tutto il resto, non è una cosa new age.

Il lato selvatico

Il primo numero è uscito per il solstizio d’inverno 1992, da allora esce due volte l’anno agli equinozi. Ai solstizi esce il «Notiziario del Sentiero Bioregionale», che a ogni numero cambia redazione, questo per dare voce alle varie componenti del movimento. Si può ricevere per abbonamento. Una volta l’anno il movimento tiene un incontro nazionale, ogni volta in poderi diversi. «Lato Selvatico» è gestito da Giuseppe Moretti che ne stampa 200 copie. Sentiero Bioregionale è nato nel 2010, da una scissione nella Rete Bioregionale. La ragione della scissione stava nel fatto che una piccola parte della Rete Bioregionale sosteneva che l’essere vegetariani dovesse costituire condizione indispensabile per aderire al movimento. www.sentierobioregionale.org