Dalle finestre affacciate sul Reno dello sconfinato World Conference Center di Bonn, che ha ospitato la Conferenza Onu sul clima appena conclusasi (senza grandi risultati), si gode un’ottima vista anche metaforica sull’Europa. Si tocca con mano prima di tutto l’attuale prolungata assenza dell’Europa come comunità di valori e di obiettivi: qui sul punto della lotta al climate change e in via transitiva su moltissimo altro. L’Europa è stata per anni battistrada dell’impegno globale per ridurre le emissioni di anidride carbonica e altri gas serra prodotte dalle energie fossili e per arginare così i cambiamenti climatici, ha cominciato a perseguire obiettivi di riduzione vincolanti quando gli altri giganti geopolitici ed economici del mondo, in testa gli Stati Uniti, o negavano il problema o comunque rifiutavano ogni sforzo per affrontarlo.

Oggi l’Europa anche sulle politiche climatiche sembra essersi dissolta: nessuna posizione comune, totale frammentazione tra Paesi che stanno puntando politicamente ed economicamente sulla rivoluzione energetica delle rinnovabili e dell’efficienza (Germania e Scandinavia su tutti), altri che frenano difendendo i loro vecchi sistemi di produzione dell’energia (Polonia e Paesi dell’est), altri ancora, come l’Italia, che oscillano tra buone intenzioni e pessime pratiche. Questa «assenza» europea, sommata al disimpegno americano dalle politiche climatiche deciso da Trump, rischia di cancellare le speranze accese dagli Accordi di Parigi del 2015, che videro per la prima volta tutti i principali Paesi «emettitori» di gas climalteranti – oltre all’Europa, la Cina, gli Stati Uniti, l’India – impegnarsi formalmente per limitare l’aumento della temperatura media sotto i 2 gradi, soglia critica oltre la quale il climate change avrebbe effetti ambientali, economici, sociali catastrofici.

Certo, la rivoluzione energetica verso la fuoriuscita dalle fonti fossili è in piena corsa in Europa e in tutto il mondo, Stati Uniti compresi malgrado il «negazionismo» climatico di Trump: rivoluzione tecnologica, dal fotovoltaico ai led alle auto elettriche, rivoluzione economica che spinge anche il business a investire sempre di più nell’energia «green», rivoluzione nei comportamenti individuali, dal car sharing all’autoproduzione di energia pulita. Ma i tempi del cambiamento sono ancora troppo lenti per scongiurare il peggio, e se l’Europa non ritroverà tutta intera la sua antica leadership nelle politiche climatiche – che significa correre più veloce verso le «emissioni zero» a casa propria e sostenere finanziariamente la «decarbonizzazione» dello sviluppo e l’adattamento ai cambiamenti climatici nei Paesi poveri – scongiurare il peggio sarà più difficile.

Vista da Bonn un’altra assenza che colpisce è quella dell’Italia. Veniamo da quasi un decennio in cui le politiche ambientali e in particolare quelle climatiche hanno accumulato passi indietro: l’innamoramento di Renzi per le trivellazioni petroliferere in radicale controtendenza con l’urgenza di sostituire i combustibili fossili, bocciato nel referendum del 2016 da 13 milioni di italiani; poi le misure che intervenendo retroattivamente sui meccanismi di incentivazione hanno messo in crisi l’industria delle rinnovabili danneggiando non solo l’ambiente ma anche l’occupazione. Così dal 2014, dopo una lunga fase di crescita, il contributo delle energie rinnovabili alla produzione energetica nazionale è diminuito costantemente (-5% solo nei primi 6 mesi del 2017 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), e le emissioni di anidride carbonica per kilowattora elettrico prodotto sono tornate a crescere dopo 25 anni di calo ininterrotto: dai 303 grammi del 2014 ai 331 del 2016.

Qualche segno di ravvedimento si scorge, il principale è l’obiettivo di chiudere entro il 2025 tutte le centrali termoelettriche a carbone (l’energia fossile a maggiore impatto sul clima), obiettivo contenuto nella Strategia energetica nazionale presentata nei giorni scorsi dal premier Gentiloni e dal ministro Calenda. Ma in generale la politica italiana mostra un disinteresse abissale per la sfida climatica. Mentre in Germania, per esempio, le trattative tra popolari, verdi e liberali per formare il nuovo governo ruotano intorno al termine, più o meno ravvicinato, per azzerare l’uso termoelettrico del carbone, da noi la sinistra e il centrosinistra su tutto si dividono – articolo 18, pensioni, leadership – tranne che a proposito di scelte su ambiente, clima, energia. Diceva Rilke che «il futuro entra in noi molto prima che accada»: nel caso delle sinistre italiane, riformiste o radicali,però non pare sia successo.