Non è facile parlare e affrontare il tema delle malattie causate dal lavoro, figuriamoci se il lavoro è quello delle collaboratrici domestiche, o «badanti» come siamo soliti chiamarle, le donne dell’est che lasciano le loro famiglie per venire in Italia a prendersi cura dei nostri anziani. La sanatoria per l’emersione dei lavoratori irregolari dello scorso autunno avrà migliorato la loro situazione giuridica, ma non quella psicologica. Moltissime di loro soffrono infatti di Mal d’Italia, o Sindrome italiana, un insieme di patologie derivanti dai ritmi massacranti di lavoro, dalla lontananza degli affetti, la quasi totale assenza di vita sociale, il senso di colpa, che si traducono in sintomi visibili già durante la permanenza in Italia per poi esplodere al ritorno nel proprio paese.
L’attrice e drammaturga Tiziana Vaccaro ha portato in scena la storia di una di loro, Vasilica, diventata poi un fumetto, Sindrome Italia, disegnato da Elena Mistrello e uscito in maggio per Beccogiallo. Abbiamo parlato con le autrici per individuare i punti salienti di un processo di creazione intermediale che ruota attorno a un tema tanto delicato.

Tiziana, come sei entrata in contatto con la storia di Vasilica?

Ho conosciuto Vasilica su Skype; abbiamo iniziato un percorso di incontri on line che è durato poco più di un anno, durante il quale, mi ha raccontato pezzi di sé, i dolori, gli strappi di una vita vissuta tra la Romania e l’Italia. Vasilica non ha partecipato ai laboratori teatrali, che ho iniziato a condurre dopo aver raccolto la sua storia, ma è stato proprio questo viaggio insieme a lei a farmi venire l’idea di conoscere altre donne e realizzare un percorso con loro, dal vivo.
L’autonarrazione può avere sicuramente effetti terapeutici, com’è stato nel caso di Vasilica e di molte altre donne; quando ho chiesto a Vasilica se per lei andasse bene raccontarmi la sua storia, custode di momenti personali e intimi molto forti e se questo la facesse star bene mi ha risposto: «non solo fa bene a me, ma sono certa che la mia testimonianza, farà bene a tante altre donne che non riescono a parlare, perché in fondo la mia vita è un po’ la vita di tutte noi ed è arrivato il momento di raccontarla».

Come sono andate le repliche dello spettacolo? C’erano assistenti domiciliari tra il pubblico, qualcuna di loro avrà letto invece il fumetto?

T.V. Lo spettacolo è stato da poco rimesso in scena, per alcune anteprime estive (l’ultima in Calabria, a Lago (Cs), stasera, in attesa di un debutto nazionale autunnale. Avrebbe dovuto debuttare nella primavera del 2020, ma in questi mesi di pandemia sono tornata in sala prove e ho lavorato ancora. Dopo l’anno terribile appena passato, non poteva rimanere uguale a sé stesso, perché ero cambiata. Certo, la storia di Vasilica è sempre quella, ma credo sia cambiata la percezione, il mio modo di stare in scena, di sentire. In sala capita sicuramente di incontrare qualche assistente familiare, ma anche persone anziane che a loro volta hanno in casa una persona che si prende cura di loro, e ancora mediatrici linguistiche o attiviste impegnate da anni nei diritti umani e nella tutela delle persone migranti. E ognuno/a esperisce la storia in maniera diversa, in base al proprio sentire e sicuramente al proprio vissuto. Poi c’è anche chi viene in camerino a salutarmi e ringraziarmi, con le lacrime agli occhi, ancora visibilmente emozionato/a, per me questo è il regalo più grande e mi restituisce il senso di anni di ricerca e lavoro.
E.M. Credo che tendenzialmente le persone migranti o più in generale le parti della popolazione con difficoltà economiche, o quelle che vivono ai margini fisici e non, abbiano meno accesso agli ambienti culturali mainstream. È una questione molto interessante che coinvolge tutta l’industria del libro: nella maggior parte delle presentazioni abbiamo parlato con persone italiane, molti spettatori ci ha raccontato storie legate a donne che lavoravano nelle loro famiglie. La cultura e la lettura dovrebbero aprirsi a più persone; in tal senso forse si muove la scelta del Bande De Femmes di Roma (festival romano che ci ha recentemente ospitato) di collocare le presentazioni i fumetti in strada, in uno spazio pubblico aperto e gratuito che permette a chiunque di fermarsi, ascoltare e partecipare. Sempre in quest’ottica abbiamo deciso di presentare il fumetto a un gruppo di stranieri adolescenti all’interno del centro estivo di Arteducazione a Milano: è stato un incontro bellissimo, pieno di domande inaspettate, dove si respirava forte consapevolezza sul tema dell’immigrazione. Sono due esempi non canonici che nel loro piccolo aiutano a muovere certi discorsi al di fuori dei contesti abituali. Inoltre, ci sono anche altre questioni che impediscono la circolazione dei fumetti tra cui la lingua, il costo dei fumetti, la diffusione di librerie o biblioteche di quartiere; si tratta di una questione complessa.

Tiziana, come ci si sente a creare dal dolore e come lo hai trasformato in quest’opera?

T.V. Con il dolore si ha a che fare ogni giorno, appartiene all’essere umano, è universale. Tutti conosciamo il dolore. Per trasformare il dolore in creazione, bisogna partire sempre da sé stessi, farsi attraversare per poi lasciare andare. È faticoso ma credo sia necessario per restituire la vita di una persona con la stessa potenza e lealtà con cui questa te l’ha raccontata. Io sono partita da me (dal mio vissuto, dai miei strumenti) per arrivare a Vasilica, e poi mi sono messa da parte. Come attrice e drammaturga ho l’opportunità di conoscere sempre più a fondo la materia del dolore, di entrarci dentro con tutta me stessa, modellarla per poi trasformarla in qualcos’altro, in arte e bellezza. Mentre scrivevo, è inutile negarlo, soffrivo anch’io poiché ero così tanto dentro la storia di Vasilica da percepirne tutto il dolore, appunto. Raccontare una storia è un po’ come portare un vestito: lo indossi perché ti sta bene, lo tieni a lungo, fin quando non diventa la tua seconda pelle. Quando ho deciso di realizzare lo spettacolo teatrale prima e il fumetto dopo, mi sono chiesta tante volte come avrei fatto a restituire tutto quello che avevo attraversato e che mi ero messa addosso, come avrei fatto a farlo attraversare anche allo spettatore/lettore. In scena ci sono il corpo e la parola, nel fumetto sono le immagini, i disegni che raccontano. Quando ho proposto il progetto a Elena le ho detto che era una storia molto dolorosa e proprio per questo dovevamo cercare di raccontarla nel modo più bello, le ho detto che si lasciasse andare alle sue visioni e alle sue mani, e che le sarei stata accanto in questo viaggio. È stato sicuramente catartico per entrambe.

Elena, il progetto di Tiziana è arrivato alle tue mani come copione o come intervista? Avevi visto lo spettacolo?

No, ho visto lo spettacolo a fumetto concluso. E quando finalmente ho visto l’anteprima è stato molto strano per me, perché in quella storia mi sono immersa talmente tanto e a lungo che mi è capitato di aspettarmi dei passaggi che invece nello spettacolo erano differenti. Devo dire che forse è stato meglio così: il fatto di non aver visto lo spettacolo mi ha lasciato più libera di immaginare, di trovare soluzioni nuove. Tiziana mi ha mandato prima il soggetto, poi una descrizione dei personaggi e infine una sceneggiatura molto precisa e dettagliata, nella quale ha adottato un approccio diverso rispetto al testo teatrale; questo ha permesso al fumetto di avere una forza e un’autonomia narrativa indipendente rispetto allo spettacolo. In alcuni passaggi si sentiva l’influenza teatrale nella recitazione dei personaggi o l’attenzione per i dialoghi e i monologhi, e questo ha arricchito di molto la narrazione; altre volte, invece, questa influenza non era funzionale al disegno o non coincideva e qui le sono stata d’aiuto a rimodulate dei passaggi sul ritmo e sul rapporto spazio tempo propri del fumetto.

Sempre più spesso i mezzi dell’entertainment si fanno carico di narrare storie struggenti, politicamente scomode, che mettono a nudo ingiustizie e soprusi del nostro tempo. Come si situa la vostra esperienza teatrale e fumettistica e quali virtù attribuite in questo senso a questi linguaggi?

T.V. Il desiderio profondissimo di raccontare questa storia nasce dalla consapevolezza che di alcune tematiche e dinamiche poco o per nulla si parla nella nostra società, eppure fanno parte di questo tempo. Le storie «invisibili», come le definisco io, sono quelle che mi interessano di più nel mio lavoro, perché poi penso che qualcuno le deve raccontare. Personalmente non mi è mai interessata la retorica del dramma ad ogni costo, del creare vittime da un lato e carnefici dall’altro, la stigmatizzazione del dolore e della migrazione. Il teatro e anche il fumetto in quanto linguaggi artistici devono necessariamente andare oltre, fornire altri sguardi, raccontare da nuove prospettive. Il teatro, tra le sue funzioni, ne ha una molto importante, quella di essere specchio della comunità in cui viviamo, di raccontare il contemporaneo, ciò che ci circonda, che ci riguarda, senza giudicare. Potrei definire la «fuga dal giudizio» la mia lotta quotidiana, contro un tranello insidioso e sempre in agguato.
E.M. Il fumetto ha un potenziale enorme per la sua capacità di comunicare su diversi piani, ma anche per la sua universalità, la sua facilità di accesso e il grado di partecipazione che richiede al lettore. Le virtù che gli attribuisco sono le stesse che attribuisco alla letteratura e all’arte, tutti linguaggi potentissimi. In particolare per me è lo strumento con cui ho sempre comunicato, che ho sempre utilizzato nella mia vita, il mio modo di guardare le cose. Non ho scelto il fumetto o il disegno rispetto ad altro, è semplicemente il modo in cui riesco ad esprimermi meglio, il linguaggio che mi è più naturale e non posso farne a meno, almeno fino ad ora. Sulla scelta o meno di temi sociali o politici, non è neanche questa una scelta vera e propria. Sindrome Italia in particolare mi è stato proposto, Tiziana mi conosce e sa che sono temi che non mi sono del tutto estranei, così immagino sia anche per lei. È molto utile sotto questo punto di vista l’eredità di anni di percorsi politici o di letture femministe e confronti, per lo meno per me è stato fondamentale poter utilizzare la mia sensibilità e il bagaglio di dubbi e domande che sono solita pormi. Non mi occupo solo di storie a carattere sociale e politico, tento anche di esplorare altri temi o generi. Lavorando con Tiziana mi sono resa conto di quanto sia prezioso essere accompagnati da un’autrice che ha dedicato il giusto tempo al lavoro di ricerca, di approfondimento e di raccolta dei materiali. Da sola non sarebbe stato possibile perché il fumetto ha tempi di produzione lunghissimi, che spesso non tengono in considerazione il lavoro di ricerca o sul campo. Spesso chi disegna non ha il tempo e il supporto economico per approfondire poiché quello che viene ricompensato è solo il tempo della scrittura e del disegno; ma molte storie, soprattutto quelle a carattere giornalistico, sociale e politico, richiedono studio o più in generale un lavoro previo maggiore. Al di là di questo trovo sempre più interessante che nel fumetto si mescolino competenze e conoscenze e mi piace lavorare con persone provenienti da altri ambiti per ora estranei al linguaggio.

Strutturalmente il racconto non ha un andamento temporale lineare: è una scelta appropriata, poiché i viaggi di Vasilica sono due e il suo percorso è sempre sottoposto al meccanismo della memoria. Elena, hai scelto di marcare questi cambi con colori diversi. A cosa dobbiamo il verde e il giallo?

Questi colori sono nati mentre lavoravamo alla locandina, ancora inedita, dello spettacolo. Io da subito sono partita col giallo, mentre Tiziana ha poi virato all’azzurro, alla fine la locandina li aveva entrambi e così sono rimasti. Ci sembravano adatti all’atmosfera, e poiché serviva una divisione netta e visiva dei momenti in Italia e in Romania, così come di quelli reali da quello più interiori, li abbiamo tenuti e sviluppati nel fumetto. La Romania voleva essere più calda, più legata al ricordo. Mentre i toni più freddi dell’azzurro sono stati scelti per raccontare l’Italia e la malattia; inoltre, l’azzurro è anche il colore della sospensione e dell’acqua anche se questa scelta non è didascalica e a volte lo schema si inverte e si sovrappone. La colorazione è stata tra l’altro la parte più rapida da realizzare sia perché è una colorazione tecnicamente molto semplice, sia perché ci ho lavorato come se fossi immersa in flusso continuo: volevo che risultasse un equilibrio precario dove i colori si richiamassero a vicenda. Avevo la necessità di tenere sott’occhio la colorazione nella sua interezza e riuscire a collegare un capitolo all’altro, fino ad arrivare a quando i colori si confondono così come i piani narrativi, così come la vita di Vasilica.

La vita sospesa o la vita annegata; Vasilica viene rappresentata spesso immersa nell’acqua, quasi sul punto di affogare. È un rimando alla sintomatologia della sindrome o alla metafora della rana?

T.V. Lo spettacolo teatrale si chiama Sindrome Italia. O delle vite sospese proprio perché le vite delle donne come Vasilica vivono in questo stato di sospensione spaziale, tra il paese d’origine e quello di arrivo, e temporale tra un passato che è ricordo, nostalgia e un futuro che è sogno e utopia. In mezzo c’è il presente, un tempo non vissuto appieno perché sempre impiegato a desiderare qualcos’altro. Ho riflettuto a lungo su come rendere questa sospensione nel fumetto, su come darle concretezza, e l’immagine dell’acqua che sommerge, che a un certo punto non lascia scampo, è stata quella che ha prevalso, la più forte, la più vera, secondo me. È sicuramente più un rimando alla sindrome – una volta Vasilica mi disse che si sentiva spesso in apnea, quasi come fosse sott’acqua – che alla metafora della rana, che eppure è un animale di acqua e di terra e quindi adatto a vivere in tutti gli ambienti. Un po’ come le donne che vengono a lavorare in Italia, lasciando quello che di più caro hanno a casa loro, per entrare nelle case di molte famiglie, tutte diverse per tradizioni e abitudini. Si adattano anche loro a vivere lontano dai propri figli in case che non hanno scelto, con persone che non hanno scelto, e che, loro malgrado, diventano tutta la loro nuova vita.