Che la scoperta di Ercolano e Pompei abbia «datato un’èra», un po’ come successe con la scoperta dell’America, lo svelò con piglio erudito Mario Praz nel suo Gusto neoclassico, non prima però di avere condiviso con Goethe che mai nessuna catastrofe fu «fonte di tanto piacere pel resto dell’umanità, come quella che seppellì» i due centri campani. «Piacere» che riguardò non solo artisti, uomini di lettere, antiquari e archeologi con sovrani, funzionari pubblici e militari che con curiosità, ambizione, passione, obblighi o cupidigia direttamente incorsero nel «prodigioso» ritrovamento; ma anche tutti quelli che di quel pezzo di mondo antico subiranno l’attrazione grazie ai disegni ricalcati in incisioni, e molto più avanti per merito della fotografia e del cinema. Di questo lungo percorso che dalle prime fortuite scoperte giunge fino all’epoca moderna parla la mostra Ercolano e Pompei: visioni di una scoperta, a cura di Pietro Giovanni Guzzo, Maria Rosaria Esposito e Nicoletta Ossanna Cavadini, ancora fino al 6 maggio visitabile al m.a.x museo di Chiasso (poi da fine giugno si sposterà al Museo Archeologico Nazionale di Napoli).
L’instabilità politica del Regno delle due Sicilie
L’esposizione ticinese indaga sul piano artistico e culturale la vasta impresa di comunicare l’avventura degli scavi, iniziati nel 1738 a Ercolano, che si estese ad altri luoghi antichi, in particolare, dieci anni dopo, nella città più grande di tutte, Pompei. Essi andarono avanti a velocità alterna, condizionati dagli umori dei sovrani ma soprattutto dall’instabilità politica e militare del Regno delle due Sicilie. Il Winckelmann nel corso della sua prima visita (1779) scrisse: «otto uomini soli lavorano a dissotterrare una città intera subissata; e cinquanta in tutto fra cavatori e schiavi barbareschi» per tutte le altre. Ne deduceva che ci sarebbero voluti «secoli per scoprire tutti i tesori sotterranei». Quattro anni dopo quel lamento, Francesco Piranesi, erede del «marchio» del padre Giambattista, dà alle stampe il Teatro grande di Ercolano, anche se quelle che aprono il percorso espositivo sono le tavole sulle città morte italiane: Antiquités de la Grande Grèce aujourd’hui Royaume de Naples, 1804-’07. Ricavate dai disegni paterni eseguiti tra il 1770 e il 1778, le troviamo vicine ai disegni di Karl Jakob Weber, l’ingegnere militare svizzero che nel 1748 «rivoluzionò i metodi di scavo» – come illustra Christopher Parslow in catalogo (Skira) – procedendo nel contestualizzare ogni ritrovamento. Weber assiste dal 1750 Roque Joaquín de Alcubierre, il colonnello ingegnere spagnolo incaricato da Carlo III di sovrintendere agli scavi di Ercolano dopo averne scoperto alcuni resti mentre lavorava alla costruzione della nuova reggia a Portici. Al contrario del suo superiore, lo svizzero avanza con metodo al recupero dei reperti sia attraverso lo scavo di cunicoli sotterranei (Villa dei Papiri a Ercolano) sia in trincea aperta (Proprietà (Praedia) di Giulia Felice a Pompei). I suoi disegni colorati, alcuni anche in assonometria, forniti di legenda dettagliati, sono probabilmente le testimonianze più rilevanti della transizione dalla cultura antiquaria a quella archeologica del Settecento. Weber espose il metodo contestualizzato in una monografia rimasta incompleta, Le piante di alcuni edifici sotterranei delle città di Stabia, Pompeiana ed Hercolana (1759). Gli eruditi dell’Accademia Ercolanense invero non la apprezzarono, tuttavia non ebbero alcun imbarazzo nel chiedere aiuto all’autore per l’antico teatro di Ercolano: ancora ricoperto dal terreno, egli seppe disegnarlo intuendo le parti nascoste sulla base di Vitruvio.
Al piano superiore del museo numerosi altri documenti raccontano le singolari imprese che tra mille difficoltà permisero di far conoscere la vasta area seppellita dall’eruzione del Vesuvio, avvenuta nel 79 d.C., dopo diciassette secoli nell’oblio. Spicca anzitutto la pubblicazione delle Antichità di Ercolano esposte (1757-1792) cui Carlo III e poi suo figlio Ferdinando affidano, in «forma di immagini», la scoperta delle città dissepolte. Una «colossale impresa editoriale – come scrive Ossanna Cavadini –, fiore all’occhiello del buon governo» dei Borbone: non furono sufficienti un esercito di incisori e la costruzione della più avanzata stamperia in Europa per completarla così come era stata pensata (dei previsti quaranta volumi, ne vennero editi solo otto). La mostra ne espone alcune splendide tavole con, di fianco, le matrici in rame che ci appaiono impresa di orafo. Nei trentacinque anni di gestazione Le Antichità – libro prezioso perché donato o venduto solo su autorizzazione dei sovrani – costituirono lo strumento volto a rimarcare l’esclusiva di un possesso unico al mondo. Un mondo che dibatte dell’Antico per formulare teorie estetiche, mentre facoltosi collezionisti internazionali in Grand Tour cercano di entrare in possesso dei suoi pregiati resti.
Da Napoli l’ordine di non far trapelare nulla se non sotto lo stretto controllo del fedele ministro-antiquario Bernardo Tanucci è il segno dell’uso politico dell’archeologia, ridotta – come bene ha chiarito Agnes Allroggen-Bedel – a innocuo «passatempo erudito». Tuttavia non mancarono la curiosità e la passione di singolari studiosi anche se per alcuni Modernes, tra questi il Vanvitelli, gli scavi non avranno mai un particolare interesse. Frutto di svariati «protoarcheologi», l’iconografia degli antichi centri si evolve con il procedere dei ritrovamenti in rappresentazioni sempre più fedeli anche con l’impiego di strumenti come la «camera lucida» per sovrapporre otticamente l’immagine da riprendere sul foglio da disegno. Si va dalle piante ritratte «a memoria» di Pompei del medico e naturalista francese François-de-Paule Latapie – che tra il 1775 e il 1776 compie tre missioni sugli scavi, e del quale leggeremo presto l’ancora inedito diario italiano scoperto dallo storico Gilles Montègre – ai fascicoli di Les ruines de Pompéi (1812-’13) di François Mazois, ai taccuini densi di appunti del viaggiatore-antiquario William Gell, riportati in Pompeiana, la prima descrizione in lingua inglese della città-morta (1819).
Pietro Bianchi direttore degli scavi per tredici anni
Tra i molteplici contributi esposti, a testimoniare lo sviluppo razionale dell’indagine archeologica, un posto di rilievo l’ha il ticinese Pietro Bianchi, nominato direttore degli scavi di Pompei nel 1831 da Francesco I. Nei tredici anni del suo mandato egli porta alla luce, partendo dall’individuazione delle insulae, molte domus, documentate con accurati rilievi in ogni singolo spazio funzionale anche nell’ipotesi di ricostruirne le parti mancanti, come tentò con la Casa del Fauno. Il confronto tra i suoi disegni colorati della famosa domus romana con la veduta di Teodoro Duclère raffigurata in rudere, evidenzia il doppio registro che dalla metà dell’Ottocento avrà la rappresentazione di Ercolano e di Pompei. Da un lato si salda la relazione tra architettura e archeologia verso un’indagine rigorosa sia del costruito, sia dei manufatti artistici e della cultura materiale dell’antichità romana; dall’altro prosegue la celebrazione del mito del mondo classico con incisioni e vedute che ne divulgano la perduta armonia e bellezza. Ancora per tutta la seconda metà dell’Ottocento la divulgazione dell’idea dell’antico oscilla tra rigore filologico e invenzione. Alla ricostruzione fantasiosa di Antonio Coppola, con le sue doppie gouache di Pompei com’è e com’era (1893), o a quella aulica di Luigi Bazzani (Interno pompeiano, 1882), si affianca, a conclusione della mostra, il realismo della fotografia artistica (Fratelli Alinari, Giorgio Sommer, Giacomo Brogi), che approderà alle forme seriali e anonime della cartolina-souvenir. Anche per Ercolano e Pompei è scoccata l’ora del consumo turistico di massa.