Al Teatro alla Scala ancora una volta in scena la parabola senza tempo del potere e delle sue degenerazioni descritta da Giuseppe Verdi e Francesco Maria Piave in Rigoletto (1851): a Mantova, in pieno rinascimento, uno stuolo di cortigiani prezzolati trascorre festosamente il tempo assecondando i desideri del duca affetto da incurabile priapismo; lo affianca un deforme e istrionico lacchè, che ne magnifica beffardamente la volubilità fino a restarne vittima. Viene resuscitata per l’ennesima volta una produzione del 1996 già più volte ripresa (le ultime nel 2006, nel 2010 e nel 2012), firmata da Ezio Frigerio (scene), Franca Squarciapino (costumi) e Gilbert Deflo (regia).

Tutto ciò che in questo allestimento ha a che fare con la vista tende a neutralizzare ogni effetto di sorpresa, non solo per il suo inevitabile carattere di dejà vu, ma per il suo chiaro obiettivo di consegnare l’opera a un’illusione di sacralità, o meglio a quella che Frigerio chiamava «scaligerità», che è la quintessenza del teatro operistico tradizionale: dallo stravisto vezzo meta-teatrale del sipario reale che si alza su un sipario dipinto su un fondale a incorniciare la sala delle feste del palazzo ducale, alla stereotipia dei gesti dei cantanti.

Tutto questo in mezzo a un trionfo di finte architetture, ori e vetrate colorate. Ciò che ha a che fare con l’udito si colloca anch’esso nel solco della tradizione esecutiva con l’appassionato e scrupoloso lavoro fatto sulla partitura dal direttore Nicola Luisotti (con qualche incertezza di attacco al seguito dei cantanti) e con il parco prevedibile delle voci.

Un cast con Vittorio Grigolo (Duca), pure generoso nel fraseggio, che mostra spesso acuti scoperti e disomogeneità di timbro salendo in acuto, oltre alla consueta recitazione sopra le righe; Nadine Sierra (Gilda) sfoggia una voce soavissima e molto tenue, molto infantile e meno lirica, con pianissimi e sopracuti sempre a fuoco; Leo Nucci (Rigoletto), calato da tempo immemore in ogni sillaba della parte e ancora in grado di distillarla con grande sensibilità attoriale e prodigalità (fisso l’appuntamento col bis del duetto finale del terzo atto), esibisce purtroppo una voce sempre più metallica e stimbrata; Carlo Colombara (Sparafucile) si muove alle stesse latitudini; corretti Annalisa Stroppa (Maddalena) e Giovanni Furlanetto (Monterone).

Insomma, ci muoviamo a distanza variabile dal volere di Verdi, che a proposito di Rigoletto scrisse: «le mie note, belle o brutte che siano, non le scrivo mai a caso e procuro sempre di darvi un carattere». Un carattere, appunto: quella sfumatura sottile ma essenziale che a tratti latita in questo allestimento, che comincia a sapere un po’ di vecchio.