Se le Olimpiadi sono qualche cosa di più di un semplice evento sportivo è anche perché sono state costruite attorno all’idea di «stato-nazione». Certo, la filosofia olimpica si richiama ai valori universali e ha come obiettivi quello di mettere lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità e di promuovere una società pacifica, tuttavia i Giochi tendono a riflettere l’immagine di un mondo diviso in stati-nazione in competizione fra loro. Oltre all’aspetto simbolico fatto di bandiere, inni e tradizioni come la parata degli atleti, che contribuiscono indubbiamente a far nascere un sentimento di nazionalismo-sportivo, è proprio la stessa struttura olimpica ad essersi affermata intorno a questo principio. La partecipazione degli atleti, infatti, è consentita solo all’interno di un Comitato olimpico nazionale (CNO) e può esistere un solo CNO per nazione.
LA FAMIGLIA OLIMPICA
Si potrebbe obiettare che il CIO riconosce più Paesi dell’ONU, ma ciò è sostanzialmente dovuto alla presenza di alcuni residuati imperiali a cui è concessa una indipendenza sportiva e non politica. Peraltro è proprio in virtù del fatto che ai Giochi si danno appuntamento «tutti i Paesi del mondo» che l’inclusione nella «famiglia olimpica» è sempre più spesso ricercata in funzione diplomatica da quegli Stati non pienamente riconosciuti dalla comunità internazionale e in questo senso i casi del Kosovo e della Palestina rappresentano due esempi paradigmatici.
In realtà il fondatore dei Giochi olimpici, Pierre de Coubertin, aveva teorizzato l’esistenza di una geografia sportiva separata da quella politica, che aveva permesso nelle prime edizioni la partecipazione di alcuni territori dell’Impero asburgico e di quello zarista come la Boemia, l’Ungheria e la Finlandia.
DOPO LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Tuttavia, dopo la Prima guerra mondiale questo principio era stato messo da parte a vantaggio dell’assunto: un Comitato nazionale olimpico (Cno), uno Stato. Da quel momento in poi si andò verso una sostanziale coincidenza fra la geografia olimpica e quella politica e la sovranità divenne una condizione necessaria per vedere incluso il proprio Cno. Dopo il 1945 l’avvento della Guerra fredda e della decolonizzazione fece emergere alcune complessità. Negli anni Cinquanta e Sessanta la presenza di due stati con il nome Germania, Cina e Corea non fu riconosciuta dal CIO e portò a lunghe controversie. Per esempio l’imposizione da parte del CIO di una squadra tedesca unificata nelle edizioni del 1956, 1960 e 1964, pur di fronte a due Stati sovrani differenti (RFT e DDR), fu presentata come una vittoria dello sport sulla politica ma in realtà, oltre a dimostrare una scarsa capacità di adattamento dei vertici olimpici alle trasformazioni postbelliche, si rivelò funzionale alle esigenze politiche del blocco occidentale.
STRUMENTALIZZAZIONI
Al di là delle conseguenze geopolitiche, la preminenza dello «stato-nazione» nel contesto olimpico emerge anche dalle ambiguità della retorica del Comitato internazionale olimpico (Cio). I vertici olimpici infatti non tollerano alcun tipo di «strumentalizzazione politica», eppure gli atleti sventolano spesso la bandiera nazionale per festeggiare i successi. Questo banale gesto, pur essendo politico, in quanto associa un successo individuale o di squadra a quello di un Paese, non viene osteggiato anzi casomai risulta incentivato dal contesto.
C’è poi anche un altro aspetto da considerare. Sebbene il rigido rispetto dei regolamenti rappresenti per le istituzioni sportive una forma di difesa nei confronti delle pressioni politiche esterne, di fronte ai tre grandi boicottaggi olimpici del 1976, 1980 e 1984, il fatto che la partecipazione degli atleti fosse consentita solo all’interno di un Cno, tolse una potenziale arma di difesa. Consentire la partecipazione individuale degli atleti, come richiesto per esempio fin dal 1976 dal velocista della Guyana James Gilkes, avrebbe potuto contribuire a indebolire il fronte del boicottaggio.
FINE DELLA GUERRA FREDDA
Con la fine della Guerra fredda tuttavia l’atteggiamento del Cio si fece politicamente più attivo. Nel 1992 nonostante la dissoluzione dell’Unione Sovietica, ai suoi atleti fu comunque permesso di competere sotto i simboli olimpici nella Squadra Unificata. Il caso più eclatante riguardò però la Jugoslavia, colpita da sanzioni Onu per la guerra nei Balcani. Il CIO, allineandosi con le decisioni del Palazzo di Vetro, sospese il Cno di Belgrado, consentendo però la partecipazione individuale agli atleti serbi e montenegrini sotto il vessillo a cinque cerchi. Negli anni successivi la sigla è cambiata più volte: «Independent Olympic Participants», «Individual Olympic Athletes» e «Independent Olympic Athletes», ma grazie a questo escamotage il Cio ha potuto garantire la partecipazione agli atleti provenienti da Stati di nuova indipendenza senza un Cno come Timor Est, Curaçao o il Sudan del Sud e soprattutto agli atleti il cui CNO era stato sospeso dal CIO, come nel caso dell’India nel 2014 a Soči e, probabilmente, del Kuwait a Rio. Queste importanti innovazioni, pur non intaccando la struttura olimpica, che resta ancora inevitabilmente costruita attorno al principio nazionale, hanno permesso al Cio di aumentare i margini di manovra della propria autonomia diplomatica.
OLTRE 21 MILIONI
DI RIFUGIATI
È alla luce di questo processo di apertura alla partecipazione individuale e di adattamento alle trasformazioni del mondo, che va letta la decisione del Cio di aprire i Giochi a una categoria di persone fino a quel momento esclusa, istituendo una squadra di rifugiati finanziata con i propri fondi. L’obiettivo di mandare un messaggio di speranza in un momento in cui, secondo l’Unhcr, nel mondo ci sono oltre 21.3 milioni di rifugiati è stato raggiunto. Per dimostrarlo basta citare la commovente storia di Yusra Mardini. Nell’agosto del 2015, in fuga dalla guerra civile, questa giovane ragazza siriana, aiutata dalla sorella e da un’altra persona, mise in salvo una quindicina di persone spingendo a nuoto per quattro ore nelle acque dell’Egeo una barca in panne. Selezionata dal Cio, oggi si allena a Berlino grazie a una borsa olimpica e potrà gareggiare alle Olimpiadi di Rio nell’Olympic Aquatics Stadium.
CAMPIONI SENZA PATRIA
Quella di Yusra e dei suoi compagni scappati dalle guerre in Congo, Siria e Sudan non è solo una storia a lieto fine o un’eccellente trovata per promuovere l’immagine del CIO in un momento di delegittimazione delle istituzioni sportive internazionali, ma è soprattutto una decisione di grande equità. Un rifugiato che è anche un campione riesce grazie alle sue qualità sportive a trovare una nuova patria ben felice di scambiare la cittadinanza con una medaglia. Succedeva in passato, basta pensare a come la Spagna franchista accolse il rifugiato ungherese Ferenc Puskás, e succede ancora oggi, come nel caso dell’iraniano Raheleh Asemani; inizialmente selezionato dal Cio, a Rio gareggerà invece per il Belgio nel taekwondo. L’istituzione della Squadra dei rifugiati è però un nuovo passo in avanti da parte del Cio che, dopo aver superato una grave crisi di corruzione all’inizio del nuovo secolo, ora sembra essere più attento nei confronti delle categorie più deboli e vittime di discriminazioni. Dopo una prima apertura agli atleti transessuali, quella ai rifugiati sembra lasciare intendere la sua volontà di adattare i valori olimpici alla modernità e non solo difenderli in maniera conservatrice e retrograda come è stato fatto in passato. Certo, la presenza di una squadra di rifugiati comporta anche un’attenzione diplomatica in quanto la scelta o l’esclusione di un atleta potrebbe avere delle ripercussioni politiche nel suo paese d’origine. In ogni caso, finalmente, anche chi aveva una patria ed è stato costretto da cause di forza maggiori ad abbandonarla, ora, in attesa di una nuova, potrà essere rappresentato nella più importante competizione sportiva mondiale.