Niente riforme nell’aula del senato per settembre. La conferenza dei capigruppo ha fissato ieri un calendario che non prevede riforme istituzionali di sorta. E’ l’ovvia conseguenza della strategia adottata da Renzi: prendere tempo. Ufficialmente per cercare un accordo con la minoranza Pd, in realtà soprattutto per lavorare ai fianchi la pattuglia dissidente e allo stesso tempo per acquistare voti ovunque siano in offerta.

Il primo passaggio della trattativa interna al Pd sarà un vertice fissato per questa mattina a palazzo Madama con i capigruppo Zanda e Rosato, la presidente della commissione Affari costituzionali al Senato Finocchiaro, il capogruppo della stessa commissione a Montecitorio Fiano e l’omologa dell’altra camera Lo Moro, unica rappresentante della minoranza. Sul tavolo l’art.1, quello che tratta delle competenze del futuro Senato. La tensione resterà dunque bassa, dal momento che sulla necessità di restituire a palazzo Madama le funzioni previste dal ddl Boschi in origine e poi falcidiate dai deputati sono tutti d’accordo.

Il pomo della discordia resta l’articolo 2, quello sulle modalità di elezione o nomina dei senatori, e lì il quadro registra un immutato muro contro muro. Renzi non ha nessunissima intenzione di toccare quell’articolo. Per la minoranza la questione è dirimente. «Un’apertura vera ancora non c’è e tocca a Renzi farla», gela gli ottimisti l’ex capo dei deputati Speranza, renziano. «Parlare d’intesa senza toccare l’art. 2 non è serio», duetta dai banchi del Senato Vanino Chiti. Nessuna delle due parti cambierà idea. Di incognita ce n’è una sola: quanti voti riuscirà a recuperare, dentro e fuori il Pd, Matteo Renzi.

Immancabile e sempre uguale, l’ora del pallottoliere è dunque arrivata. Gli strateghi di palazzo Chigi danno per persi solo 8 voti su 28 dissidenti conclamati nel gruppo Pd. Tutti gli altri vengono considerati «recuperabili», però, ammettono anche i più rosei, non in egual misura.

In concreto, una quindicina almeno di voti dovrebbero mancare all’appello. Nell’Ncd il malessere cresce di giorno in giorno: non a caso martedì scorso, nella riunione della commissione, uno degli interventi più duri è arrivato proprio dall’alfaniano Augello. Gli esitanti sono anche qui 15, ma i conti della drogheria palazzo Chigi, probabilmente approssimati per difetto, ne danno per persi non più di quattro.

Sul fronte della pesca nel bacino dell’opposizione, il risultato è per ora l’acquisizione dell’Idv, partito approdato a sponde opposte da quelle vagheggiate a suo tempo da Tonino il fondatore. In conferenza stampa è stato ieri garantito un appoggio alle riforme che, a palazzo Madama, vale due voti sin qui d’opposizione, quelli degli ex grillini passati al Misto Bencini e Romani. È possibile che altri se ne aggiungano ma al momento il rapporto di forza rende proibitivo uno scontro a base di centinaia di emendamenti sull’articolo 2.

Renzi confida in Grasso per risolvere alla radice il problema con una bella decisione sull’inemendabilità del medesimo articoletto. Se così non sarà, il premier è ogni giorno di più tentato dal ricorso al voto di fiducia. Sarebbe molto più che una semplice forzatura: la sola idea di varare una riforma costituzionale col voto di fiducia, sia pur solo su un articolo, è letteralmente inaudita. «Sarebbe davvero troppo, e la nostra reazione sarebbe adeguata a un passo che ci auguriamo nessuno abbia davvero intenzione di muovere», mette le mani avanti la presidente del Gruppo Misto e senatrice di Sel Loredana De Petris.

Uno scontro parlamentare durissimo, ove davvero si arrivasse alla fiducia su una riforma della Carta, è più che prevedibile.

Ma il niet più temuto da Renzi, quello del Colle, probabilmente non arriverà. Sergio Mattarella, sia pure con i propri metodi, molto più morbidi di quelli tipici del predecessore, sarebbe determinato a fare il possibile per impdire lo scioglimento delle camere anche in caso di bocciatura secca dell’articolo 2 e di dimissioni del governo. Ma sulla trovata di varare una parte sostanziale della riscrittura della Costituzione col ricatto del voto di fiducia il Colle non intenderebbe invece muovere un dito. Con la formula «è competenza del Parlamento» se ne laverebbe le mani.