«Si tratta di un meccanismo previsto in altri ordinamenti come la Francia e la Germania, non è una stranezza inventata da questo governo». In prima commissione al senato Maria Elena Boschi difende il disegno di legge costituzionale del governo. E si concentra sull’aspetto più criticato, la cooptazione al senato di sindaci e consiglieri regionali in luogo dell’elezione diretta dei senatori da parte di cittadini. Cita l’esempio di Germania e Francia. Ma la prima è uno stato federale: i Lander mandano a Berlino i rappresentanti dei governi locali. E la seconda, la Francia, ha appena introdotto il divieto di cumulo tra mandato parlamentare e funzioni esecutive locali – il contrario esatto di quello che propone il governo italiano. Non solo: i francesi affidano il compito di scegliere i senatori a 150mila grandi elettori. Il genio renziano, qui da noi, immagina di riservare il privilegio a ottomila sindaci e mille consiglieri regionali.

La mancate elezione diretta è il punto d’attacco della proposta di legge alternativa illustrata ieri dal senatore del Pd Vannino Chiti (non molto diversa da quella alla quale lavorava da ministro delle riforme del secondo governo Prodi). È il fronte interno del Pd: oggi una ventina di senatori, ma si tireranno dietro altri scontenti della maggioranza. «Renzi non è il verbo e noi non siamo gli infedeli. Meglio confrontarsi, ragionare nel merito», dice il senatore democratico Mucchetti. E il suo collega Mineo: «È il parlamento che deve decidere, non Renzi. Per fortuna siamo ancora senza vincolo di mandato». Se Forza Italia si sfila, se Berlusconi esce dall’accordo per la riforma del bicameralismo mollando anche la legge elettorale (che proprio dal senato deve passare), Renzi non può permettersi di perdere un voto, figuriamoci venti. Per questo il presidente del Consiglio e la ministra Boschi si dividono i compiti.

Lei si occupa dei problemi in casa Pd. E conferma la disponibilità a correggere il testo in commissione, dove dalla prossima settimana si giocherà la partita vera sul ddl costituzionale, sotto la regia della presidente Finocchiaro (ieri il suo ex portavoce stroncava la riforma in un articolo sull’Unità). Persino la fretta in base alla quale bisognerebbe approvare il testo del governo entro le elezioni europee sfuma un po’ nelle parole della ministra: «Nessuno vuole dare ultimatum al parlamento».

Renzi invece si occupa soprattutto di Forza Italia. Riceve a palazzo Chigi Denis Verdini e Gianni Letta, ambasciatori di un Silvio Berlusconi che ha raccolto poco o nulla al Quirinale. Ne esce ostentando ottimismo: «Rispetteranno l’accordo. Sono convinto che Forza Italia voterà sia la riforma del senato che la legge elettorale». Per questo non si nega affatto a un incontro con l’ex Cavaliere in procinto di essere ristretto ai servizi sociali: «Non avrei nessun problema ad incontrarlo, ma non è previsto». Per questo non si concede nessuna prudenza nei confronti della dissidenza interna: «Si viaggia come un rullo compressore», assicura dalla televisione (Otto e mezzo). E ripete la minaccia sulla fine della legislatura: «Se non ci riusciamo io vado a casa, ma anche gli altri».

Ma che al senato la sua riforma rischia tanto non può non saperlo. Renzi attacca per difenderla. «La proposta di legge dei 22 del Pd? Non ha alcuna chance», chiude il discorso. Il punto però non è quanti voti prenderà Chiti, ma quanti toglierà al ddl governativo. Per questo il segretario Pd imbroglia le carte e parte con la propaganda: «Loro vogliono mantenere l’indennità». Vero, ma la proposta Chiti taglia i parlamentari più di quanto non faccia Renzi. Il risparmio sarebbe superiore. Poi l’ultimo spot: «Il Pd ha già fatto il dibattito, si chiamava primarie, dove i candidati hanno presentato delle proposte di legge». Le primarie le ha vinte lui. Ma la legge elettorale che aveva annunciato tante volte prima del giorno dei gazebo, alla fine non l’aveva presentata affatto. E sulle riforme costituzionali si può leggere la mozione Renzi che è ancora sul suo sito: non c’è una riga.