Mario Mauro punta i piedi e una parte dei Popolari per l’Italia lo puntella per aiutarlo a resistere meglio. L’ex ministro non accetta la rimozione d’imperio dalla commissione Affari costituzionali di palazzo Madama e il suo gruppo avanza formale ricorso, non solo in quanto la sua sostituzione lederebbe l’articolo 67 della Costituzione, che garantisce ai parlamentari libertà da ogni vincolo di mandato, ma anche sulla base dei regolamenti del Senato. La regola, infatti, impone la votazione in conformità alle decisioni del gruppo ma afferma anche che, se entrano in ballo convincimenti morali o radicate valutazioni personali, il voto in dissenso è lecito e deve quindi essere garantito.

La seconda argomentazione è quella più spinosa. Le questioni di dubbia costituzionalità hanno tempi biblici e le decisioni arrivano spesso “a babbo morto”, o a Senato riformato che dir si voglia. Un ricorso avanzato impugnando il regolamento del Senato, invece, ha tempi rapidissimi e la decisione spetta essenzialmente a un uomo solo: il presidente Pietro Grasso. Sarà lui, nei prossimi giorni, a dire se ha ragione Mauro oppure il capogruppo Lucio Romano che ha deciso la rimozione (ordinata in realtà da Casini in accordo con Renzi). Se Grasso, nella sua veste di presidente della Giunta per il regolamento, dovesse ripristinare il seggio di Mauro in commissione, i rapporti di forza si rovescerebbero e il governo, il cui margine di vantaggio è esiguo (15 contro 14), finirebbe in minoranza. Col rischio, anzi con la certezza, di arrivare in aula con un testo radicalmente modificato dagli emendamenti approvati in commissione.

Ma anche qualora il presidente del Senato scegliesse di dar ragione a Romano e Casini, il segnale è ben poco rassicurante. Se non rientrerà la ribellione dei 14 senatori del Pd “autosospesi” (che decideranno entro lunedì se presentare lo stesso ricorso dell’ex ministro), a cui si dovranno aggiungere i voti di Mauro e dei popolari schierati con lui, la minaccia di una sconfitta in aula su alcuni emendamenti decisivi è concreta. E’ vero che da qualche giorno si riparla con insistenza di un patto segreto con la Lega, ma se c’è un terreno minato ed esposto a ogni imboscata, al Senato, è proprio quello dei rapporti col Carroccio. Roberto Calderoli è di gran lunga il senatore più astuto e capace di muoversi a piacimento nella giungla delle trappole parlamentari: lo ha confermato facendo passare in commissione l’odg sulla riforma del Senato che ha messo nei guai il governo. Fidarsi di Calderoli, per il premier Renzi, vorrebbe dire giocarsi la riforma a testa o croce.

La paura passerebbe di colpo se Silvio Berlusconi garantisse l’appoggio di Forza Italia, naturalmente. Il cavaliere è disposto a farlo, imponendo ai suoi per nulla contenti parlamentari di appoggiare l’elezione «di secondo livello», dunque indiretta, dei senatori. Ma in cambio vuole poter vantare un risultato tangibile, riscrivendo per intero il ruolo dei sindaci nel nuovo Senato. Ma, almeno sinora, Renzi non ha dato segnali di disponibilità in materia. La situazione potrebbe aggrovigliarsi ancora di più, perché Renzi e il ministro della giustizia Andrea Orlando hanno intenzione di varare, venerdì prossimo, il ripristino del falso in bilancio. Una mossa (osteggiata anche dalla ministra per lo Sviluppo Federica Guidi) che Berlusconi potrebbe vedere più o meno come una dichiarazione di guerra nucleare.
Conclusione: urge «convincere» almeno una parte degli autosospesi del Pd a piegarsi e a votare come Renzi comanda, perché, avverte il premier ostentando sicurezza («i voti ci sono» anche senza dissidenti), «in commissione è doveroso che ci siano i numeri, il tempo delle mediazioni è finito, se stai in una comunità ci devi stare».

Si può scommettere a colpo sicuro che, tra l’assemblea nazionale di oggi e quella del gruppo lunedì al senato, le pressioni diventeranno ineguagliate. Forse, per non dire probabilmente, fino alla minaccia di espulsione in caso di ulteriori resistenze.