Ieri dalla mattina alle 10.30 alla sera alle 18.00 c’è stata a Roma, in un palazzo della presidenza del Consiglio, la prima riunione della commissione dei quarantadue «saggi» incaricati di avanzare proposte di riforme alla Costituzione. Quasi una partenza ufficiale del complicato percorso studiato dall’esecutivo per le riforme costituzionali, non fosse che è stata almeno la quinta cerimonia di avvio. A partire dalle dichiarazioni programmatiche di Letta, passando per la relazione del ministro delle riforme alle camere, per la giornata di sedute parallele che senato e camera hanno dedicato all’argomento e finendo con la nomina dei «saggi» e la loro presentazione al Quirinale, sono stati due mesi di ripetuti avvii e «calci d’inizio». Un altro «calcio» ci sarà oggi, quando il disegno di legge governativo di deroga alla procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo 138 muoverà i primi passi in commissione affari costituzionali al senato. A questo punto il governo ha fretta e il ministro Franceschini ha chiesto la procedura d’urgenza.

E assai probabile che l’otterrà, vista la maggioranza delle larghe intese, eppure rinunciare alla metà dei tempi di discussione per una legge costituzionale non è un passo da poco: la Costituzione vorrebbe al contrario che ogni modifica fosse ben meditata. Il regolamento della camera, peraltro, al comma 3 dell’articolo 69, esclude le leggi costituzionali da quelle per le quali è ammissibile la procedura d’urgenza; solo ai senatori il governo può dunque contingentare i tempi. La mossa di Franceschini «approfitta» del regolamento del senato, ma è poco coerente con l’annunciata intenzione di applicare ai lavori del «comitato dei 40» (senatori e deputati che lavoreranno sui testi di riforma) il più prudente regolamento della camera.

La fretta di Franceschini è la stessa fretta di Enrico Letta. Il presidente del Consiglio ieri ha presenziato all’avvio dei lavori dei «saggi», spiegando che le riforme costituzionali sono «una riforma strutturale al pari di quelle che ci chiede l’Europa». Ma nemmeno l’Europa, che ha dettato le regole su fisco, mercato del lavoro, banche e concorrenza, si sognerebbe mai di chiedere all’Italia modifiche al sistema parlamentare o alla forma di stato e di governo. L’idea che «solo ridisegnando alcuni aspetti della nostra architettura costituzionale» l’Italia possa avere «istituzioni autorevoli e riconosciute come tali» è tutta del governo e nello specifico del ministro Gaetano Quagliariello, che con questo ragionamento ha introdotto ieri la riunione dei «saggi».

Riunione, la prima, dedicata al parlamento: tema facile scelto per cominciare, perché sul fatto che si debba modificare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari sono d’accordo tutti. E più o meno tutti hanno convenuto di lasciare la formula «senato federale» agli stati che federali lo sono davvero. Ma due o tre voci dissonanti si sono levate contro l’idea che la camera alta debba essere indicata dai consigli regionali, visto che prevedere poteri legislativi (sia pure residuali) slegati dall’investitura popolare non pare un passo verso il recupero del rapporto stretto cittadini-eletti. Di bicameralismo si parlerà ancora lunedì prossimo, i temi «caldi» come la forma di governo sono stati lasciati in fondo. La legge è in agenda a fine luglio.

L’urgenza per la quale in sei mesi bisognerebbe riscrivere completamente la Costituzione e addirittura in quattro trovare un’intesa politica sul merito delle modifiche, Quaglieriello l’ha ripetuta ai «saggi», spiegando loro che – siccome non sono pochi – in due riunioni dovranno esaurire ogni argomento e che potranno intervenire per cinque minuti a testa. L’obiettivo è quello di chiudere le relazioni (ce ne saranno di maggioranza e di minoranza) entro luglio, per poi tornarci su a settembre e consegnare tutto al governo in ottobre. E non è detto che il governo – che pure giura sulla «centralità del parlamento» – alla fine non decida di presentare direttamente i disegni di legge di modifica alla Costituzione, così come ha già fatto con il ddl sulla procedura. La fretta di Quagliariello ieri è stata criticata, ma non dal Pd bensì da un collega berlusconiano del ministro, Sandro Bondi. Quagliariello ha risposto che non è possibile accusarlo sia di voler correre troppo che di voler perdere tempo per allungare la vita al governo. Avrebbe ragione, se ci fosse una terza possibilità: il governo vuole dare il tempo al Pd di consolidarsi su una posizione favorevole al presidenzialismo, lì dove già si trovano gli altri partiti delle larghe intese. Per la fine dell’anno, dopo il congresso, dovrebbero arrivarci anche i democratici.