Il referendum popolare è ancora lontano e allora Matteo Renzi impone un referendum in parlamento. Sulla riforma costituzionale ma prima ancora su se stesso. I tempi del dibattito in senato sulla più importante revisione della Carta mai stata tentata dal ’48 li stabilisce palazzo Chigi. Il presidente del senato si offende, si arrabbia, ma non si oppone. Il Quirinale non interviene. Il disegno di legge Renzi-Boschi che cambia un terzo della Costituzione salta la fase referente in commissione e arriva oggi pomeriggio direttamente in aula. Per essere votato nel giro di due, tre settimane. Renzi nel frattempo si è assicurato i voti e le assenze strategiche di un po’ di opposizione di destra. Quanto dovrebbe bastare. Ma non esclude più lo strappo definitivo: la questione di fiducia. Potrebbe chiederla sull’articolo 2, nel caso il presidente del senato dovesse ammettere gli emendamenti sul senato elettivo. La voce circola come una minaccia a Grasso: ci pensi bene.

Grasso ci sta pensando da tempo, ha detto di aver passato l’estate leggendo gli interventi dei costituzionalisti in commissione. Se l’ha fatto davvero a questo punto sa che in maggioranza raccomandano di tenere aperta la porta alle modifiche alla legge di revisione fino all’ultimo, come prevede l’articolo 138 della Costituzione che nella gerarchia delle fonti prevale sul regolamento del senato. E se Grasso ha dato anche una scorsa ai precedenti avrà scoperto che la riapertura di un articolo di legge costituzionale approvato in doppia conforme è già stata concessa, nel ’93 dal presidente della camera Napolitano (che oggi predica l’intangibilità del testo). I rumors sulle intenzioni di Grasso – non cederà, si diceva – hanno ricevuto una prima smentita ieri in conferenza dei capigruppo. Il presidente non si è opposto alla richiesta del Pd di portare il disegno di legge subito in aula, e nemmeno a quella di cominciare immediatamente – da oggi – e nemmeno a quella di spalancare il calendario alle sedute notturne e alle sedute uniche, che mettono al riparo il governo dalla mancanza del numero legale. E così tra stasera e venerdì la discussione generale sulla riforma andrà avanti in un’aula semivuota e probabilmente finirà anche prima del previsto per assenza di interventi. Del resto caduta ogni possibilità reale di convincere il governo a una mediazione, il dibattito ha poco senso. La logica del referendum sul governo, sul presidente del Consiglio, è chiara: prendere o lasciare.

La decisione del Pd ha anche il senso di una sfida a Grasso. Così l’ha motivata la presidente della prima commissione Finocchiaro, asso nella manica di Renzi nella sfida a poker con la presidenza del senato. Per settimane il Pd ha chiesto a Grasso di anticipare la sua decisione sull’ammissibilità degli emendamenti all’articolo 2, Grasso ha correttamente risposto che aspettava di vedere gli emendamenti in aula. E così Finocchiaro, convocata in capigruppo, ha chiesto di vedere le carte. Ha spiegato che la discussione andava tolta dalla commissione e portata in aula per «la qualità della questione politica». L’ennesimo strappo (già visto sull’Italicum, con la medesima protagonista) sarebbe dunque colpa degli altri. Colpa di Grasso che non decide, della minoranza Pd che ha voluto far saltare il «tavolino» tra le correnti di partito (un capolavoro di imperizia), colpa dell’eccesso di emendamenti.

Calderoli, il leghista che si proclama oppositore ma si comporta da alibi per il governo, ha ritirato i suoi cinquecentomila e passa. «Ne restano però tremila», dichiara la ministra Boschi, ed è una scusa assai gracile visto che sono di più quelli sulle unioni civili, legge sgradita a Ncd che il governo lascia serenamente a bagnomaria in commissione. Altri emendamenti potranno essere presentati in aula fino a mercoledì. La minoranza Pd conferma tutti i suoi, in particolare quelli potenzialmente pericolosi per il governo che mantengono l’elezione diretta dei senatori. Ma il rischio è che di trenta senatori non renziani una decina possano venire meno, col risultato di rendere l’opposizione interna perfettamente sostituibile dai soccorritori di destra. Già ieri la minoranza Pd ha votato a favore del calendario «di guerra» voluto da Renzi «per rispettare la disciplina del gruppo», pur giudicandolo «un grave errore e una forzatura». A questo punto i milioni di emendamenti annunciati da Calderoli potrebbero essere il primo assist a Renzi per chiedere il voto di fiducia, se Grasso decidesse di riaprire l’articolo 2. Il secondo assist arriverà dalla direzione del Pd che approverà la linea del segretario. In fondo sono venti mesi che il presidente del Consiglio lega il suo mandato a questa riforma. E prima del referendum tra gli elettori vuole il plebiscito tra i senatori.