«Il nodo è la composizione del senato». Siamo sempre lì, alle prime critiche che la proposta di riforma costituzionale del governo aveva ricevuto, ormai quasi tre mesi fa. E non sono serviti gli ultimatum, né la raffica di soluzioni alternative alla semplice elezione diretta dei senatori sostenute dal governo (nomina di diritto, libertà alle regioni di scegliere il proprio sistema). L’ultima è il cosiddetto «modello francese», che di francese ha poco o nulla, e che per i renziani ha retto come soluzione di mediazione appena qualche giorno. Fino a che Forza Italia l’ha bocciata.

Il governo, che non rinuncia al ruolo di regista delle riforme malgrado i pessimi risultati raccolti, deve quindi cambiare ancora una volta strada. È in difficoltà, come ammette anche il sottosegretario Pizzetti, ieri in commissione in sostituzione della ministra Boschi. Appunto: «Il nodo è la composizione del senato». Al presidente del Consiglio continuano ad arrivare grosse spinte – ieri il (decadente) presidente della commissione europea Barroso ha detto che l’Italia non può fare a meno delle riforme di Renzi – ma il peso degli emendamenti presentati in commissione costringe a un nuovo stop. A questo punto anche il sì dell’aula entro fine mese è a rischio. A meno che il governo non arrivi a chiudere il dibattito in commissione per portare tutto in aula, con i tempi contingentati (e sarbbe claoroso per una riforma costituzionale).

Il problema non è tanto la mole degli emendamenti leghisti – oltre tremila, in totale superano i cinquemila -, che possono essere ritirati, anche se le condizioni che continua a porre Calderoli sono inconciliabili con le tesi governative (di certo lo è la terza): «Riduzione del numero dei deputati oltre che dei senatori, ridefinizione delle funzioni del senato, senato eletto dalla gente e non dalla casta, poteri alle regioni». Il punto è che quando si arriverà al voto il governo continuerà ad essere in minoranza in commissione. Come lo è stato dall’inizio, salvo quella notte che Forza Italia decise di sostenere il testo base del governo, piazzando un voto a tattico favorevole in mezzo a dichiarazioni tutte contrarie. Tant’è che aleggia ancora il buco nero procedurale, in virtù del quale la commissione sta ragionando su un testo di legge precedentyemente smentito da un ordine del giorno.

Il cosiddetto «modello francese», cioè l’elezione indiretta dei senatori da parte di un collegio di consiglieri comunali e regionali, non ha i numeri per passare in commissione: è sotto di due o tre voti. Forza Italia lo osteggia soprattutto perché riporta i sindaci al centro del progetto di rinnovamento della seconda camera, i sindaci (tipo, il sindaco di Venezia) e i rappresentanti degli enti locali. Nel modello (non francese ma) italiano sarebbero gli unici eleggibili, e si dà il caso che siano in maggioranza Pd. Berlusconi, però, nei suoi continui ripensamenti, non ha ancora rinunciato al «patto del Nazareno».

Solo con un sì stabile di Forza Italia la riforma-cancellazione del senato comincerebbe a fare passi avanti. È per questo che la relatrice Finocchiaro prende tempo fino alla prossima settimana per calare la versione definitiva dei suoi emendamenti. E, nonostante tutto, non rompe con l’altro relatore, Calderoli, sapendo che può tornare utile come testa di ponte in campo forzista. Tutti i voti sono importanti, ma convincere un solo senatore non basterebbe in ogni caso. E così le voci di una possibile sostituzione in commissione del senatore «civatiano» Mineo servono solo come pressioni indebite. Non regge l’argomento che, avendo sostituito un renziano, Mineo dovrebbe adeguare i suoi voti. Perché in commissione tra i senatori del Pd ce n’è anche uno che ha sostituito Chiti, cioè colui che si è intestato la battaglia per l’elezione diretta.