Ha mantenuto la promessa di essere demagogico Matteo Renzi, che ieri a Bergamo ha aperto la campagna elettorale del Sì quando mancano quattordici giorni alle elezioni amministrative e quattro mesi almeno al referendum costituzionale.

La comunicazione è assai ben studiata, si vede la mano del consigliere americano. Il discorso del presidente del Consiglio rimanda ai volantini diffusi dal Pd nei banchetti che raccolgono le firme per il Sì, alle schede sulla riforma pubblicate ieri dall’Unità e al materiale di propaganda diffuso dal sito Bastaunsi. Nel complesso sono tre i punti di attacco.

La riforma semplifica. La formula viene tradotta in altri slogan. «Chi vince governa per cinque anni». Un merito, nel caso, che si dovrebbe attribuire alla legge elettorale. Che, però, malgrado il super premio di maggioranza non può escludere cambi di orientamento dei deputati nel corso della legislatura (quel trasformismo che oggi consente al governo Renzi di andare avanti) e dunque non può impedire crisi di governo. «Basta ping pong delle leggi». Non è così perché i senatori-consiglieri regionali continueranno a votare le leggi (anche quelle costituzionali) e almeno quattro dei sei nuovi e diversi procedimenti legislativi prevedono un passaggio al senato.

La riforma favorisce la partecipazione. È vero il contrario, a partire dal fatto che i cittadini non voteranno più i senatori, saranno scelti dai consigli regionali. Nel materiale di propaganda del Pd si spiega che la nuova costituzione darà «più spazio ai cittadini» perché il parlamento sarà «obbligato» a discutere le leggi di iniziativa popolare. Nella riforma c’è scritto solo che le firme necessarie per presentare queste proposte aumentano (da 50 a 150mila). E c’è un rinvio a una futuribile modifica dei regolamenti perché si prevedano «le forme e i limiti» della discussione parlamentare. Mentre i referendum propositivi e di indirizzo vengono solo nominati, toccherà eventualmente a una prossima riforma della Costituzione (non a questa) introdurli davvero. Quanto al già previsto referendum abrogativo, è vero che il quorum viene abbassato (e non eliminato) ma solo di fronte a un aumento delle firme raccolte.

La riforma fa risparmiare. Si insiste sul fatto che i prossimi cento senatori non avranno l’indennità da parlamentari (ma il rimborso delle spese e lo stipendio da consiglieri regionali). Non si dice più che il risparmio sarà di un miliardo, da quando la ragioneria dello stato ha conteggiato non più di 49 milioni di economie negli stipendi. Non cambia nulla nella spese per il personale del senato, che nella riforma si è garantito un passaggio nel ruolo unico della camera. Renzi dice che con la riforma «non sarà più possibile dare i rimborsi ai consiglieri regionali» ma nel testo della nuova costituzione non c’è (ne potrebbe esserci) nulla in proposito. C’è solo l’equiparazione degli emolumenti dei consiglieri allo stipendio del sindaco del capoluogo (il più alto).

Renzi, volendo sorprendere, a Bergamo ha detto che «anche Berlinguer parlava di monocameralismo». Il riferimento del segretario Pd è a un documento del Pci del 1981 in cui si scriveva che «il bicameralismo appare come un appesantimento dei lavori parlamentari… la soluzione più razionale è l’unicità dell’assemblea parlamentare». È un documento di politica economica che esalta anche la funzione del Cnel (adesso eliminato), potevano essere trovati riferimenti migliori. Per esempio un seminario dei gruppi parlamentari comunisti di quello stesso anno, introdotto da Ingrao e concluso proprio da Berlinguer. Che nel Pci ci fosse quella linea di pensiero è un fatto noto. Diventerà una proposta di legge costituzionale quattro anni più tardi (dopo la morte di Berlinguer) nel 1985. Presentata dai deputati di sinistra indipendente, primo firmatario Gianni Ferrara, secondo Stefano Rodotà (poi i deputati Bassanini e Levi Baldini, cioè Natalia Ginzburg). La differenza fondamentale rispetto a oggi è che allora la legge elettorale era proporzionale, l’unica camera elettiva sarebbe stata davvero rappresentativa. Oggi la legge elettorale è ultra maggioritaria. Per conservarla si è tenuto in piedi un senato dimezzato e una forma confusa di bicameralismo.
Malgrado quell’iniziativa di trent’anni fa, Ferrara è stato inserito ieri in una lista di «storici avversari di qualsiasi tentativo di cambiare la Costituzione» pubblicata ieri dall’Unità (con lui i colleghi costituzionalisti Pace, Villone e Zagrebelsky). Autore della lista, compresa in un’elegia della riforma Renzi-Boschi, il professore di diritto pubblico comparato a Firenze Carlo Fusaro (un possibile presidente del comitato scientifico del Sì). Fusaro di certo non è un conservatore. È già stato favorevole a una riforma costituzionale, quella di Bossi e Berlusconi del 2005. Anche allora fece campagna per il Sì al referendum, la fece invano perché vinse il No. E la sua fu una scelta coerente: il professore infatti era stato tra i sei consiglieri scelti dal ministro delle riforme Bossi e dal suo capo di gabinetto Speroni. La devolution fu immaginata con il contributo di quei saggi, guidati dal piemontese Brigandì, avvocato di Bossi e già «procuratore generale della Padania». Fusaro oggi è un convinto centralista: «Più potere legislativo allo stato».