Il 2013 è stato anche l’anno del movimento nato intorno al documento “La via maestra” (Rodotà, Landini, Carlassare, Zagrebelsky, Ciotti) e alla manifestazione di Roma del 12 ottobre, che chiedeva la piena attuazione della Costituzione e diceva no alla modifica dell’art. 138 della Carta – che allora veleggiava nelle camere con il vento in poppa – per procedere alle riforme. Di questo movimento il costituzionalista Stefano Rodotà – che a aprile, alla vigilia del suo 80esimo compleanno, viene scelto come presidente della Repubblica dal Movimento 5 stelle ma più tardi finisce nel mirino di Grillo – è stato fra i primi ispiratori e protagonisti.

Professore Rodotà, la modifica del 138 alla fine è stata ritirata. La ‘via maestra’ ha vinto. Ma un po’ a tavolino: è franata la maggioranza che la sosteneva. Maggioranza che infatti, dicevate voi, non era affidabile per le riforme.

Quel documento e soprattutto la manifestazione, che ha assunto un significato al di là delle nostre aspettative, hanno contribuito a creare una cultura diffusa che ha via via delegittimato l’iniziativa di riforma per come la concepiva il governo. Quando le condizioni per andare in quella direzione si sono fatte più difficili in effetti c’è stata una nostra vittoria a tavolino: governo e maggioranza si sono arresi. E senza combattere: anche perché si sarebbero trovati un’opinione pubblica ormai convinta che quella strada metteva in discussione passaggi essenziali del processo democratico. Ma la via maestra va avanti: ogni giorno il rispetto della Costituzione diventa una bussola essenziale per la vita democratica. Basta vedere cosa è accaduto negli ultimi giorni, che non ha precedenti nel nostro paese. Il governo è stato costretto a ritirare un decreto sul quale la maggioranza si era impegnata fino in fondo. È il segno di un sistema impazzito perché si è allontanato dalle logiche costituzionali, prigioniero di interessi particolari e di un’idea strumentale delle istituzioni, come già sul 138. Oggi queste distorsioni sono diffuse: l’uso della decretazione d’urgenza, l’inserimento in un decreto di qualunque cosa.

Le riforme, sebbene ridimensionate, restano nell’agenda del governo.

Oggi si parla di riduzione dei parlamentari e di fine del bicameralismo perfetto. Ma bisogna fare attenzione: una forte riduzione del numero dei parlamentari senza correttivi inciderebbe sulla rappresentanza, ovvero ridurrebbe la possibilità di essere rappresentati. E quando si dice ‘la sera del voto bisogna sapere chi sarà il presidente del consiglio’, si rischia di arrivare surrettiziamente a quella modifica della forma di governo che si dice di aver abbandonato. È irragionevole che nel Pd si voglia presentare una riforma elettorale prima che si conoscano le motivazioni della Corte costituzionale. È un’idea balzana: cosa avverrebbe se una volta incardinata la riforma in commissione affari costituzionali venisse fuori una motivazione in contrasto con il nuovo testo? Si avrebbe una delegittimazione del testo e una nuova occasione di conflitto. Un altro segno di impazzimento del sistema.

A proposito della sentenza sul Porcellum, il dibattito ha investito pesantemente la Consulta che, si è detto, ha delegittimato tre parlamenti eletti con quel sistema.

Questo dibattito e queste alte grida mi sbalordiscono. Non so se l’elemento prevalente sia la malafede o l’ignoranza. Ho sentito perfino docenti universitari sostenere che nella Costituzione non c’è una norma che nega quel premio di maggioranza: ma allora ‘il voto è eguale’ che significa? Leggeremo le motivazioni, ma la Corte ha detto che il premio di maggioranza così come previsto dal Porcellum è illegittimo. Non ha stabilito un premio indicabile, né ha fatto rivivere il Mattarellum. Imputarle di aver forzato la mano per il ritorno al proporzionalismo senza limiti non si può. Il ceto politico non è in grado di misurare le proprie azioni, e quando queste sono valutate incompatibili con la Costituzione se la prende con il giudice. La Corte ha detto che le leggi elettorali debbono essere conformi alla Carta. Quasi una banalità, che però è incompatibile con l’incultura che circola. Ora il parlamento deciderà autonomamente. Ma ripeto: aspetti le motivazioni della Corte, si tratta di poche settimane. Diversamente sarebbe un modo suicida di andare avanti: si fornirebbero argomenti enormi a chi vorrà contrastare una legge che entrasse in conflitto, anche in parte, con quello che la Corte deciderà.

Crede, come il presidente Napolitano, che il proporzionale sia superato dal referendum del ’93?

Il referendum ha dato un’indicazione, ma non si può sostenere che abbia introdotto un vincolo costituzionale contro il proporzionale. I costituenti, proporzionalisti, furono lungimiranti e non vollero costituzionalizzare la legge elettorale.

Le chiedo ancora un giudizio sulla retorica delle riforme di governo e maggioranza. La modifica del 138 era, dicevano, irrinunciabile; chi vi si opponeva era un conservatore. Ma la modifica alla fine è saltata, e senza una parola di autocritica.

Prima della sentenza della Corte noi firmatari dell’appello “la via maestra” avevamo scritto una lettera pubblica intitolata “l’urgenza e l’indecenza”. L’indecenza era il tentativo di andare avanti sulle riforme con forzature anche dopo che era venuta meno la possibilità politica di farlo. La retorica delle riforme istituzionali continua ad essere usata, ed è pericolosa perché finisce per legittimare i tentativi di forzature. Di fronte alla clamorosa sconfitta di chi aveva sostenuto che la modifica del 138 ci avrebbe portato chissà dove, chiedo a Letta un po’ di misura. Anche perché c’è un fatto nuovo: questo parlamento, dice la Corte, nasce con un vizio di costituzionalità, la sua legittimazione politica – sottolineo politica – a mettere le mani pesantemente sulla Costituzione non è più piena.

È la tesi del Movimento 5 stelle, e cioè che il parlamento non è legittimato a fare le riforme?

Dei 5 stelle o no, noi l’abbiamo detto prima di tutta la bagarre. Per fare le riforme oggi ci vuole prudenza. E un consenso largo.

Letta infatti promette che comunque vada, le riforme non saranno approvate dai due terzi del parlamento, per dare in ogni caso la possibilità di svolgere il referendum confermativo.

È apprezzabile ma non basta. Peraltro, indipendentemente dalla sentenza della Corte, è opinione diffusa – anche nella maggioranza – che l’orizzonte politico di questa legislatura è comunque ridotto al 2015, anziché essere il 2018. Un altro parametro costituzionale saltato. Non dico che Letta debba durare fino al 2018, ma registro un altro tassello della decostruzione costituzionale.

Lei, professore, crede che nel 2014 le riforme si faranno davvero?

Non faccio previsioni. Ma bisogna impedire che con la fine del bicameralismo perfetto e con la nuova legge elettorale venga modificata surrettiziamente la forma di governo. Oggi le possibilità culturali e politiche per impedirlo ci sono, e personalmente, e con la schiera di volenterosi della via maestra, cercheremo di evitare che succeda.

Arriviamo al 2014. Un gruppo di intellettuali, fra cui lei, ha fatto un appello – pubblicato sul manifesto – contro le politiche del rigore e il pareggio di bilancio in Costituzione, il nuovo art.81. Sarà questo il vostro nuovo fronte?

La via maestra è stato un grande successo e ha determinato una forte e variegata domanda che impone una riflessione. La traduzione che circola ancora è che questo successo suggerisce se non un partitino, almeno una lista alle europee. Non è così. Cercheremo di creare una mobilitazione della “coalizione sociale”. E una delle ragioni del ritardo nel farci sentire – che fine avete fatto?, ci chiedono in tanti – è stato darci un minimo di struttura organizzativa. Ma senza alcuna centralizzazione, anzi si è già determinata una forma di decentramento. Ora lavoriamo su tre fronti. Il primo è l’articolo 81 e le leggi attuative, intorno al quale costruire un’azione collettiva, anche referendaria. Secondo, l’abrogazione dell’art.8 del famoso decreto del 2011 del governo Berlusconi, poi ripreso dal governo Monti, che consente la contrattazione decentrata anche in deroga alla legge. Umberto Romagnoli sul manifesto è stato il primo che ha messo in evidenza la riduzione privatistica del diritto del lavoro, una regressione spaventosa dal punto di vista culturale e una redistribuzione del potere a danno dei lavoratori e del sindacato, in una fase in cui la crisi di per sé enfatizza il potere imprenditoriale. Legato a questo c’è la legge sulla rappresentanza: oggi molti dicono sì, ma si tratta di vedere come farla; e il reddito minimo, o di cittadinanza, o universale, altra questione ineludibile, molto controversa a sinistra e distorta dalla contrapposizione schematica fra reddito e lavoro. Poi c’è il discorso dei beni comuni concretamente legato all’attuazione piena del referendum sull’acqua; una delle componenti importanti della via maestra ha già preso iniziative, a Milano ci sarà un ricorso al Tar contro il criterio di determinazione delle tariffe da parte dell’autorità competente. È un tema di battaglia politica: nel cosiddetto decreto Salva Roma era stato introdotto un emendamento che obbligava il comune a privatizzare l’Acea. Anche qui ci colleghiamo all’Europa: sono state presentate a Bruxelles le firme di un’iniziativa dei cittadini per chiedere alla Commissione di stabilire le caratteristiche del servizio idrico europeo. E infine riprenderemo il tema della rappresentanza e delle iniziative dei cittadini: cercheremo di rendere vincolante per il parlamento l’obbligo di discutere e votare in aula le leggi di iniziativa popolare, che talvolta raccolgono centinaia di migliaia di firme ma finiscono in archivio.

Ma dunque la via maestra non porterà i suoi rappresentanti nelle liste per il parlamento europeo?

Fatte salve le scelte individuali, e so che tanti si muovono in varie direzioni, personalmente penso che tradurre questo lavoro di ricostruzione sociale nella partecipazione a una lista non è la scelta da fare. È la mia posizione, naturalmente. Altro potranno essere dichiarazioni singole o di gruppi a sostegno di qualche candidato.